6 bella da morire

Gli eventi descritti in questo racconto si svolgono nell’arco di qualche anno, diciamo quattro o cinque, però ho lasciato a chi legge il piacere di collocare nella verosimile scansione temporale i fatti dei quali seguirà il dipanarsi.
Per aiutarvi voglio solo dirvi che il tutto ha a che fare con un recente conflitto etnico, la guerra civile che ha insanguinato lungo l’ultimo decennio del XX secolo le terre che furono la Jugoslavia.
La pronuncia corretta dei nomi è la seguente:
Saša (sascia)
Jana (iana)
P.S. Il titolo, come al solito, è un mezzo rebus, vediamo chi va oltre la soluzione più semplice.

 

6 bella da morire

Il vecchio guarda la valle sotto di lui.
Sta seduto su un muretto a secco all’ingresso del piccolo paese, lo stesso posto dove un tempo soleva ritrovarsi con la brigata di amici, piccole pesti renitenti ai loro doveri di scolaro o di aiuto in famiglia, un tempo ormai più che passato, trapassato, come trapassati sono ormai quasi tutti i suoi compagni di giochi, di studi, di lavori, di vite, di soddisfazioni, di dolori, e di quel che ancora ha da essere.
Il tempo è quel tiranno che decide cosa puoi fare e cosa non puoi fare, e guai a sgarrare.
Quand’era un ragazzino, sopra quel muretto ci camminava, e poi ci si sedeva con le gambe che penzolavano di fuori su un salto di una ventina di metri almeno, ed era normale, nessuno aveva obiezioni da fare. Adesso solamente per posarci il culo sopra aveva fatto fatica, anche se i piedi posavano sul selciato della strada. La nuora poi, quando lo vedeva lì, in quella posa, aveva sempre da dire qualcosa e tornava subito con una sedia presa dalla cucina, per farlo sedere su quella perché “metti il caso che ti viene un giramento…”.
In fondo la donna ha ragione, qualcosa al vecchio gli gira sempre, ma non è la testa.
La valle è larga un paio di chilometri, e profonda quanto basta per risultare impervia, ma non scorre acqua laggiù in fondo, o almeno così è da quando lui ha memoria. Pochi alberi e altrettanto pochi campi coltivati, il minimo per non dover dipendere dalla carità altrui, prima dalla chiesa e poi dal partito, che poi sempre una chiesa è.
Lo sguardo risale verso il versante che gli sta di fronte, scorre il fianco dove dei rari terrazzamenti ospitano alberi da frutta, meli in prevalenza, fino ad arrivare al crinale sul quale si scorgono le spigolose sommità dei tetti di un altro insediamento di povera gente.
Anche se parte del suo corpo ha da tempo tradito quel vecchio, prima la prostata, poi l’intestino, e infine ciò che fa di un uomo un uomo, la sua mente e i sensi sono rimasti all’erta, si potrebbe aggiungere un purtroppo.
Si sente nell’aria il profumo di carne alla brace, ma lui sa che a casa lo attende un’infelice zuppa. Le risate di giovani ragazze che rimbalzano tra le strette vie del villaggio lo riportano ai tempi di quando le sue mani, non ancora gialle e incartapecorite, sfioravano seriche gambe, e sempre tremavano per l’impazienza di salire e per il timore di essere respinte anzitempo.
Di occhiali non ha bisogno, a caccia riesce ancora a beccare un coniglio selvatico a cinquanta metri, e per leggere non gli servono, dato che, finita la scuola, nemmeno un giornale ha mai preso in mano. Tutto quello che c’è da sapere, in paese già si sa.
Così adesso se ne sta lì, ormeggiato su quel molo terragno, e osserva le volute di fumo bianco che si levano dai camini del villaggio di fronte.

 

Saša ha freddo. Anche il grosso tronco di faggio sul quale appoggia la schiena è freddo, lo sente attraverso la maglia di lana e il frusto giaccone mimetico di cotone. L’aria è meno di una brezza, giusto un alito, ma il gelo quasi ignora la stoffa, si insinua nella trama dell’ordito, si fa filamento tra i fili, arriva alla pelle per succhiarne via il calore e morde come una lampreda insaziabile.
Il bosco di notte è tremendo, disumano, la faccia feroce della natura, così lirica quand’è baciata dal sole, così primordiale dopo il tramonto, e così silente che anche i rumori più deboli echeggiano minacciosi.
Piange la civetta in attesa di piombare, morte inavvertita, sulla sua vittima; si lamentano gli alti rami, sfiniti dalla lotta incessante contro il vento, contro la gravità, contro i loro fratelli; la volpe lancia acuti lamenti, tristi come quelli di una vedova troppo giovane; rumori di foglie appena spostate, forse piccoli roditori che scavano in cerca di cibo, o forse la loro nemesi che tende agguati; un maschio di capriolo abbaia rauco la sua rabbia, contro gli altri maschi, oppure contro l’acqua che non c’è. È un irregolare accavallarsi di fruscii, singulti, scricchiolii, echi, tonfi soffocati, rumori che sorgono indefiniti dall’oscurità, e che in essa si perdono come assorbiti dall’atmosfera umida e pesante di effluvi dolciastri, di resina, di fungo, di legno marcito, di putrefazione.
Saša se ne sta lì, seduto per terra, circondato da umori e rumori, immobile ma irrequieto, timoroso di avvertire qualcosa di diverso, qualcosa di veramente pericoloso. Ogni tanto capita che le voci del bosco si acquietino, e allora il silenzio colma le orecchie coi suoni del corpo, un sottile e acutissimo fischio, impercettibile se non ci si fa caso, il sordo rombo del sangue, la sua pressione, la sua danza tribale e monotona, e la tensione dei nervi che cantano una parola sola: angoscia.
Allora Saša stringe più forte il suo vecchio Zastava M70; la risposta dell’acciaio attraversa i sottili guanti di lana, gli parla con la sua superficie dura e fredda, in apparenza inerte, ma pronta a diventare rovente come l’Inferno al momento di dispensare la morte.
Chissà a cosa sta pensando, lui, così giovane accanto a quegli alberi secolari, così effimero in quel bosco senza tempo. Probabilmente pensa che fa troppo freddo, e ricorda.
E ricorda.
Quasi tre anni fa, a un paio di chilometri da lì, un altro bosco, una pineta, e una larga radura.
La festa di paese, un piccolo paese, in quel grande prato a poche centinaia di metri dalle case.
La musica dell’orchestrina a fiati si mescola col fumo della carne abbrustolita sulla griglia.
Coppie di vecchi ballano sopra un’essenziale pista realizzata con tavole di legno per armatura.
Giovani che bevono e ridono forte, ma si intuisce che il loro è uno sforzo, un’esibizione.
Una voce allegra, vicina, improvvisa.
– Ciao, io sono Jana, tu non sei di queste parti, vero?
E ricorda.
Jana, che lavora in una fabbrica di conserve in città.
Jana, che è tornata a trovare i suoi.
Jana, che sorride e ti disarma.
Jana, che non ha paura di restare.
Jana, che ti guarda con occhi neri come una notte senza luna.
Jana, che è spuntata dal nulla.
E ricorda.
Lui, ancora studente, arrivato fin lassù per cavare una misera paga, pochi dinari per un lavoro estivo in una grande segheria.
Lui, così lontano da casa, così lontano da loro.
Lui, a quella festa di un paese che non conosce e che non lo conosce.
Lui, con una birra tiepida senza schiuma e senza corpo.
Lui, che si annoia, ma non ha voglia di tornare.
Lui, quando incontra Jana.
E ricorda.
Loro, con la luce che cambia, subito.
Loro, quando basta uno sguardo per capirsi.
Loro, una quasi estranea e un ancora forestiero.
Loro, forse gli unici a trovare ridicola e tremenda tutta quell’allegria.
Loro, che si prendono per mano.
Loro, che se ne vanno.
E ricorda.
Jana, preoccupata per come stanno andando le cose.
Jana, e la fabbrica in città che sta per chiudere.
Jana, i suoi dubbi, i problemi di famiglia, la crisi di tutti.
Jana, tornata in paese ad aspettare che passi la tempesta.
Jana, che vive in una piccola casa vicino alla segheria, giusto dietro al colle.
Jana, mai vista prima, forse per colpa di quell’altura, o forse per colpa della sega a nastro multiplo che tutto riempie durante il giorno.
E ricorda.
Buon mattino Jana, vado al lavoro.
Pausa pranzo, pausa vita, con Jana.
Ci vediamo stasera, andiamo a fare un giro, al lago, in paese, dove vuoi tu Jana.
Torno al lavoro Jana, dammi un bacio.
Come sei bella Jana.
Ciao Jana, a più tardi.
E ricorda.
Gli altri operai che corrono.
Lui non capisce, non sente, ha le cuffie.
Le macchine si fermano, non c’è più corrente.
È strano, il pavimento continua a vibrare.
Si toglie le cuffie.
Cannoni che sparano, i boati vicini, troppo vicini.
E ricorda.
Corre fuori.
Su per la collina, senza fiato.
Arriva in cima.
Il cuore si ferma.
La casa di Jana non c’è più.
Al suo posto il terreno sconvolto, come rivoltato da un immenso cinghiale, macerie, fumo che sale, polvere che si spande.
E ricorda.
Nascondersi e aspettare che se ne vadano.
Sono passati. Come una grandinata estiva, hanno distrutto tutto e sono spariti.
Si scava con ciò che si ha: badili, picconi, mani. Bisogna fare presto, bisogna tirarli fuori, presto, più presto, ogni secondo è prezioso.
Via quei mattoni, attenti con quella trave, di qua, di qua, ho trovato una scarpa.
Ecco che finalmente Jana emerge. La marea di calcinacci scende e lei emerge, pallida, immobile, libera dalle macerie, libera dalla paura, libera dalla vita; lei emerge, stravolta, come una bambola con gli arti stortati da una bambina isterica.
Grigi i suoi abiti a brandelli, grigio il suo volto senza più sguardo, grigio il sangue che il suo corpo ha pianto invano, grigia la polvere di malta che le ha tappato la bocca spalancata nel suo ultimo grido.
Fine della storia, di lei, di loro. Fine anche di lui in quel posto. Se ne va senza sentire le urla strazianti dei parenti di Jana, senza vedere le fiamme che si levano alte dalla segheria, senza bisogno di dire alle gambe dove andare, nausea nello stomaco, acido nella bocca, acqua bollente nelle vene.
Adesso Saša è tornato.
Adesso è lui che sta dalla parte della morte.
Adesso ha scelto il campo, ha ucciso sé stesso, il ragazzo che è stato, i suoi sogni e i suoi pudori.
Adesso è cambiato, adesso quasi uomo, adesso più forte, in questi boschi, quasi uguali, in questo paese, mai più uguale.
Adesso non è la vendetta che lo sprona, quella è stata già presa, o persa, da tempo.
Adesso ha capito di che pasta son fatti i caporioni; non ci sono ideali, non va in cerca di gloria, ne ha viste troppe ormai di commemorazioni e di lapidi, la sua è solamente rabbia, inestinguibile furore verso coloro che hanno scoperchiato il vaso di Pandora.
Qualche volta gli viene la voglia di girare la canna del Zastava per far strage dei suoi compagni, ma poi non saprebbe più dove andare; allora se ne sta lì, sentinella di notte, in quel’antico faggeto, tendendo l’orecchio allo spasimo e aspettando l’alba di un giorno senza promesse.
Bada! Un fruscio, e un altro!. È appena un sussurro, ancora distante, ma reca un messaggio tremendo.
Silenzio.
Di nuovo. Più vicino adesso!
Il suo cuore accelera, come se già sapesse che siamo agli sgoccioli, che bisogna battere più che si può, perché il giro di giostra sta per finire.
Cercando essere il più silenzioso possibile Saša arma il suo fucile, si prepara alla battaglia, ma non contro il nemico, per quella c’è ancora tempo. È contro i suoi nervi che ora deve lottare.
In quel bosco, di notte, si è ciechi. Lui sa di non essere visibile, ma neanche quei bastardi lo sono, e se aspetta di vederli per mettersi a sparare rischia di trovarseli praticamente addosso.
Esclude anche una sventagliata in direzione del rumore; al buio, con quel ferrovecchio che si ritrova tra le mani, non c’è speranza di colpire qualcuno a più di un centinaio di metri di distanza, col rischio che l’arma si inceppi dopo la prima raffica rivelando la sua posizione e lasciandolo a culo scoperto.
Allora aspetta, come fa sempre. Cerca di capire, dal rumore che fanno, dove sono, quanti sono, e a che distanza, quindi pam pam pam, tre spari singoli e poi via, dietro a un altro grosso tronco per ripetere lo stesso giochetto, in attesa che arrivino presto i suoi compagni allertati dai colpi d’arma da fuoco.
Saša ha un sussulto e non riesce a trattenere dietro ai denti serrati un suo pensiero.
– Incredibile! Sono degli idioti, o si voglio suicidare.
Inizia a distinguere, distanti, i contorni verticali dei tronchi, segno evidente che quelli stanno procedendo nel bosco illuminando la strada davanti a loro; è come se urlassero “sparateciiii!”; gli sprazzi di luce che riescono a farsi strada fino lui gli fanno capire che stanno venendo nella sua direzione, proprio in bocca al lupo.
Però Saša è interdetto, qualcosa non torna, c’è troppo silenzio, quei cani non hanno paura di farsi vedere, però non si fanno sentire. Non ha senso.
Quando finalmente riesce a intravedere chi sta arrivando non crede ai suoi occhi.
Una figura chiara avanza su un sentiero tra gli alberi, un percorso che arriva diritto fino a Saša, e che, lui ne è più che sicuro, non aveva notato, neanche di giorno.
Chi sta arrivando non ha nessuna torcia elettrica, non ne ha bisogno, ha in sé la stessa luminosità della luna piena, si avvicina tranquillamente, e poi lo guarda.
– Jana!
La figura non risponde, però sorride a Saša.
– Jana, sei tu? No, non è possibile… tu eri… tu sei…
Invece è lei, inconfondibilmente lei, seppure così diversa. È lei la causa di quei fruscii, sposta appena le foglie sul terreno, ma senza calpestarle. Ci scivola sopra, come una barca a vela sul mare calmo, un mare di vecchie foglie di faggio.
Saša aveva sempre riso delle storie di fantasmi e di apparizioni, non aveva mai creduto a quei racconti, li considerava buoni solo per spaventare i bambini. A dirla tutta, da un po’ aveva smesso di credere a un mucchio di cose, anche a quelle più evidenti e tangibili.
La figura che è ora davanti ai suoi occhi va invece al di là di ciò che si potrebbe guardare con scetticismo e incredulità; quel bosco, quel momento, quei ricordi non si prestano a giochi di prestigio oppure a sedute spiritiche, non c’è un pubblico da imbrogliare, un pollo da meravigliare, no, lì c’è solamente morte, dolore, e rimpianto.
Se la ricordava grigia, il colore del suo sudario di cenere e malta magra, un piegato manichino di sabbia, mentre adesso lei è candida come la neve appena posata; al posto di quei vecchi jeans e della maglietta strappata Jana indossa la stessa gonna e la camicia con le maniche a sbuffo di quando l’aveva vista la prima volta, alla festa, e anche quelle sono bianche, vaporose nella luce lattescente che le avvolge.
Solamente gli occhi sono rimasti scuri come ossidiana, e infinitamente profondi come l’universo intero, e la bocca, vermiglia, per la quale si vantava sempre di dover usare solamente un’ombra di rossetto.
Jana non parla, si limita a fissarlo e gli sorride, uno sguardo che vorrebbe sollevarlo dalla sua inestinguibile tristezza. Jana è ancora più vicina a Saša, si vedono, si osservano e, come allora, si capiscono: tutti quegli affanni, le speranze, le paure, il dolore, l’ira, e quel corollario di azioni generate dall’ambizione, dall’orgoglio, dalla presunzione, dall’ingordigia, che senso hanno quando non si riesce ad apprezzare la vita per la sola ragione di essere vivi?
Saša è triste per Jana.
Jana è morta senza godere abbastanza della sua vita, magari insieme a Saša.
Saša non ha mai desiderato tanto come in quel momento di restare accanto a Jana.
Jana è triste per Saša.
Saša è più morto di lei. Non sarà più quel ragazzo che aveva ballato con Jana.
Jana vede una corazza piena solamente di rancore, una crisalide dura chiamata Saša.
– Saša, dove sei ora? Ti ricordi di me, ti ricordi di Jana?
– Jana, come ci si può scordare di te? Come potrebbe farlo il tuo Saša?
– Saša, o Saša, torna a essere il mio ragazzo, torna da me, vuoi?
Egli non comprende se quelle parole stiano provenendo da lei, dal bosco, dalla sua testa, ma non ha il minimo dubbio.
– Sì.
Il fruscio è vicinissimo, si sfiorano con lo sguardo, si sorridono, e piangono.
Con la vista già offuscata dalle lacrime, Saša vede che lei si sta chinando per baciarlo sulla fronte. Ecco, lei posa le sue labbra,… come sono fredde! Un lampo. Quanta luce! È…

 

Dal fondovalle salgono dei rumori, un brontolio irregolare e il lamento di ingranaggi maltrattati, poi il vento porta su il puzzo di olio bruciato, infine sulla carrareccia in salita sbucano due fuoristrada che precedono una scia di polvere, sono un vecchio Pinzgauer dell’esercito e una Lada Niva verde oliva dalla quale sono state rimosse le portiere. I veicoli si stanno dirigendo verso il groppo di case, misere costruzioni arroccate su un versante scabro e spoglio.
All’entrata del piccolo villaggio c’è un lungo muretto di pietre tirate su a secco, e seduto dietro a quello sta un vecchio imbacuccato nella sua gabbana di pecora; il fucile che imbraccia indica che è lì con un compito preciso, non sicuramente per scaldarsi ai raggi di quel timido sole marzolino. Oltre al vecchio non si vede nessuno, quasi egli fosse il custode di un villaggio fantasma. Qualcun altro c’è, ma ad ogni buon conto si preferisce rimanere barricati in casa, spiando le intenzioni dei nuovi arrivati e lasciando volentieri a lui il pericoloso compito di organizzare il comitato di benvenuto.
Il vecchio torna ogni giorno al suo muretto, ma non ci si siede sopra, non più, non si fida troppo. Ha portato lì una poltroncina di plastica, roba pescata da un giardino abbandonato. La nuora non gli porta più una seggiola dalla cucina, non c’è più la nuora, se n’è già andata dai suoi, in Dalmazia. Non c’è più neanche la seggiola, si era rotta, e così è servita per scaldarsi e cucinare un po’ di minestra. A dirla tutta non c’è più nemmeno la cucina, sventrata da un colpo di mortaio. Per fortuna la casa era vuota un quel momento.
La vista del vecchio è sempre buona, allora, oltre al servizio di sentinella, gli tocca osservare lo sfacelo della valle, i frutteti abbandonati, gli alberi tagliati alla meglio per far legna da ardere o arsi sul posto da qualche granata mal diretta.
Dal crinale lontano non si levano più verso il cielo le bianche volute, e se c’è del fumo è nero, pesante e persistente. Solamente la distanza evita al vecchio di venire ammorbato dal puzzo di morte che quel catrame in volo trasporta.
I due fuoristrada si fermano a una decina di metri da lui e ne scendono degli uomini armati sommariamente. Uno di quelli, apparentemente il comandante di quell’accozzaglia di individui male equipaggiati, si avvicina al muretto. Il vecchio si alza lentamente e abbozza una sorta di saluto militare.
– Salve capo, bentornati.
– Ciao vecchio, come va qui, tutto a posto?
– Tutto a posto. Quei maiali non si fanno vedere, hanno paura.
– Bene, bene.
Il vecchio non riesce a staccare gli occhi dall’arma che l’uomo tiene a tracolla. La sua invidia è manifesta, gli brillano gli occhi come a un bambino.
– È un AK-47 quello li?
– Ah, l’hai notato. Bello vero?
– E dove ti sei procurato quel gioiellino?
– L’ho preso a uno che ce l’aveva con me, ma purtroppo per lui la sua mira era pessima. Peccato, non avrà più occasione di migliorarla!
I due uomini si fissano per un momento e poi scoppiano in una sonora risata. Il vecchio darebbe un occhio per fare a cambio col suo fucile da caccia.
– Senti vecchio, di benzina e gasolio ce ne sono ancora vero?
– Quanto ne vuoi capo, sempre dove sai.
– E di lubrificante ne avete? Quel catorcio russo consuma più olio che carburante.
– Mmm… non lo so. Forse dovrò far svuotare il carter di qualche trattore.
– Nessun problema, andrà bene lo stesso.
Il vecchio si sta avviando su per il paese, quando si ferma come se avesse scordato qualcosa; fissa gli uomini vicino ai fuoristrada e poi si rivolge al comandante.
– Il biondino, dove l’avete lasciato?
– Andato.
– Ah.
– Era di sentinella, di notte, ma quello scemo si è addormentato.
– Brutto affare.
– Pessimo. Il suolo nel bosco è ancora umido, le foglie non fanno troppo rumore, e uno di quei bastardi è riuscito ad avvicinarsi di soppiatto, gli ha appoggiato sulla fronte una pistola col silenziatore e poi ha fatto fuoco.
– Maledetto. E voi?
– Noi stavamo più in alto e non c’hanno beccato, altrimenti eravamo fottuti tutti quanti. L’abbiamo trovato al mattino dopo, tornando a valle.
– Sai capo, ricordo bene che noi partigiani fucilavamo sul posto chi si addormentava durante il turno di guardia. Direi che vi hanno levato il pensiero.
– Però è strano, stava lì, con la schiena appoggiata su un faggio, e sul volto aveva un’espressione beata. Direi quasi che sorrideva.
Il vecchio rivide nella memoria il suo paese com’era solo pochi anni prima, voltò lo sguardo verso la valle martoriata e parlò senza guardare in faccia il suo interlocutore.
– Se uno, di questi tempi, ha ancora voglia di sorridere, è proprio scemo del tutto.
Non c’erano altri commenti da fare, ma il silenzio del paramilitare era diverso da quello conclusivo del vecchio, era evidente che qualcosa ancora gli frullava per il cervello, e infine non riuscì a trattenersi.
– Un’altra cosa non mi torna. Sulla sua fronte, accanto al foro d’entrata della pallottola, abbiamo trovato delle evidenti tracce di rossetto, come se una donna l’avesse baciato.
– Del rossetto? Nel bosco? Impossibile. Ve lo sarete sognato…

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