Le verità di Pinocchio

Le verità di Pinocchio

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Quindicesima puntata

 

– Come, come, come? – saltò su Pinocchio.
– Già, è proprio così – confermò l’omone, tenendo gli occhi bassi come se si vergognasse di possedere quella casetta così accogliente.
Tale circostanza inaspettata esigeva più di qualche spiegazione, a maggior ragione del fatto che tutti in quella stanza erano stati in passato ben diversi da come apparivano in quel momento. A partire da Pinocchio, che dopo aver lasciato il suo stato di burattino di legno un po’ scapestrato s’era dimostrato un ragazzino pieno di senno, ed era arrivato in compagnia di un cane che fu sbirro, ma che poi scelse la vita vagabonda e avventurosa. Ci stava la Fata dai capelli non più turchini, sempre graziosa, ma con sguardi e atteggiamenti da giovane donna che ormai ha capito come vanno le cose di questo mondo. Per non parlare di Mangiafoco, il quale non sarebbe stato più diverso nemmeno se gli fossero spuntate le ali. Pinocchio se lo ricordava malvestito e scarmigliato, con una barbaccia nera come la pece che gli arrivava fino ai piedi e che gli nascondeva la bocca, quest’ultima più simile a un minaccioso antro oscuro che a qualcosa di umano. Ora invece, guardalo là, ben pettinato e con una barba elegante lunga una spanna soltanto, camicia e pantaloni sobri ma pulitissimi, infine, dettaglio più che strabiliante, calzava delle pantofole! E che fine aveva fatto il teatro di marionette?
Se delle vicende che avevano portato lì Pinocchio e il suo nuovo compagno di viaggio s’era capito qualcosa già dalla sera prima, la presenza della Fata in casa di Mangiafoco appariva più che strana, quasi inverosimile.
– Ma io ricordo bene che avevi una casa vicino al Campo dei miracoli – disse Pinocchio alla Fata.
– Venduta – rispose lei.
– E perché? Era molto bella.
– Sì, è vero, era veramente carina, però i posti m’erano venuti a noia.
– I posti? – insistette Pinocchio.
– Beh, soprattutto le persone a dire il vero.
La storia che raccontò la Fata era qualcosa di già sentito, in altri luoghi e in altri tempi, ma con lo stesso canovaccio. Per molto tempo lei s’era adoperata per aiutare gli abitanti che vivevano nei dintorni di casa sua, sempre grazie a quanto aveva appreso quand’era giovanissima. Trovava le giuste erbe per un linimento, preparava decotti e purghe, faceva beatamente dormire gli insonni, sopiva il batticuore degli ansiosi, smorzava il mal di denti, fortificava gli anemici, rincuorava i tristi e chetava gli agitati, sempre senza chiedere nulla in cambio, se non la possibilità di continuare a vivere in pace nella sua casetta, ma purtroppo proprio quello le fu negato.
Dapprima cominciarono a presentarsi alla sua porta dei perfetti estranei che avevano sentito, credevano d’aver sentito, giuravano d’aver sentito, speravano d’aver sentito che lei aveva dei poteri magici, e che tutto poteva, che tutto risolveva, che tutto otteneva. Era un bell’affare quando doveva deludere il supplicante, se possibile usando la massima gentilezza, ma arrivando a modi più spicci quando quello diventava insistente, molesto, persino minaccioso. Dopo qualche tempo si sparse la voce su quanto lei fosse cattiva, malvagia, velenosa, e di come godesse delle sofferenze altrui.
Se dell’opinione degli estranei lei non ci faceva troppo caso, ben altro discorso era la piega che avevano preso i suoi rapporti con la gente del luogo. Capitava troppo spesso che le persone s’approfittassero un po’ troppo dei suoi buoni uffici, e che per giunta rinunciassero volentieri a seguire i saggi consigli che offriva, tra l’altro senza chiedere nulla in cambio.
– Eh, caro Pinocchio, tu non sei stato il solo ammalato che non voleva farsi curare – gli disse la Fata, riandando con la memoria al loro primo incontro, quando il burattino mise su quella ridicola pantomima per non prendere la medicina. – Ho incontrato fior di testoni che non si sarebbero convinti nemmeno davanti a un plotone di conigli neri.
In buona sostanza, lei ascoltava l’ammalato, suggeriva un rimedio, se necessario preparava una medicina, ma appena uscito dalla casa della Fata quello faceva tutto il contrario e riprendeva le sue malsane abitudini, salvo tornare a bussare con insistenza alla sua porta lamentandosi della mancanza d’efficacia della cura.
– Quando mi resi conto che per quanto mi sforzassi non cavavo un ragno dal buco, e che non c’era verso di far del bene perché in realtà il bene non lo cercavano, mandai tutti a quel paese. M’ero stufata di parlare al vento, così vendetti la casa a un contadino del luogo e presi il primo sentiero che andava a mezzogiorno.
Pinocchio e Alidoro convennero con la Fata che la sua decisione era stata giusta, perché all’ignoranza e all’ingratitudine non ci sono rimedi. Rimaneva ancora sospeso un bel punto di domanda, rappresentato da quella figura imponente che aveva ascoltato in silenzio un racconto che molto probabilmente gli era già noto.
La curiosità era troppa, e Pinocchio non si trattenne.
– Va bene, però che ci fai con Mangiafoco?
– Che ci faccio? È semplice, ci vivo.
– Qui?
– E perché no? – disse lei. – Non ti sembra una bella sistemazione? La casa è carina, spaziosa quanto basta. Vedi, da queste parti nessuno mi conosce, così finalmente posso starmene in pace, e poi Mangiafoco è una persona così premurosa…
Pinocchio non poteva credere alle sue orecchie. Sapeva che sotto quel suo aspetto burbero c’era, ben nascosto, un cuore tenero, ma arrivare a definirlo premuroso era troppo. Però il fatto che si fosse occupato lui della cucina era un chiaro indizio d’un cambiamento che non era solo esteriore. Restava da capire i motivi di quella rivoluzione, e Pinocchio pensò bene di chiederne conto direttamente all’interessato.
Mangiafoco ci pensò un po’ su, probabilmente per decidere da dove iniziare, e dopo qualche preparatorio colpetto di tosse si decise a parlare.
– È vero, è tutto vero, questa è casa mia, o per meglio dire dei miei genitori. Da giovane però queste contrade mi stavan strette, perciò decisi di andare a vedere con i miei occhi le meraviglie del mondo che queste colline nascondevano. Ti confesso che all’inizio rimasi abbastanza deluso. Dappertutto ritrovavo le stesse miserie, le stesse piccinerie, le stesse fatiche che avevo lasciato, finché un giorno vidi uno spettacolo di burattini, e tanto mi piacque che decisi lì per lì quale sarebbe stato il mio mestiere. Andai a garzone da quel burattinaio e imparai tutto quello che c’era da imparare, con l’intenzione di avere in futuro un teatrino tutto mio. In capo a qualche anno avevo messo da parte abbastanza soldi per procurarmi palco, scenari e marionette, così iniziai a organizzare i miei spettacoli.
– Bella vita – commentò Pinocchio. – Senza un padrone che ti dice cosa fare, quando fare e come fare.
– Sì – rispose Mangiafoco. – Proprio una bella vita. Sempre in giro, sole, pioggia, canicola, gelo, vento, nebbia, senza un giorno di festa, senza un letto, senza un pasto sicuro, senza il conforto di una voce amica. Mi ridussi a parlare con le marionette, ma quelle avevano paura di me e stavano sulle loro.
– Posso capirle, eri abbastanza spaventoso.
– Ero stanco. Non trovavo mai il tempo e il luogo per farmi un bagno, per radermi, per comprarmi un vestito buono, per farmi una bella dormita in santa pace, perciò il mio umore era sempre pessimo. Tra l’altro Mangiafoco non è nemmeno il mio vero nome, perché hanno iniziato a chiamarmi così a causa del mio aspetto e dei miei modi, bruschi a dir poco. Tenevo duro solamente perché altro non sapevo fare, e alla mia età nessuno m’avrebbe preso a bottega, troppo vecchio.
– E come ti chiami veramente?
– Enore.
– Bel nome – commentò Alidoro. Ho conosciuto un altro Enore tempo fa, era un cane in gamba. Ops, scusa.
– Non fa niente, comunque m’ero abituato a sentirmi chiamare Mangiafoco, e poi mi stava pure bene perché teneva lontani i malintenzionati.
– Però sei qui ora, e nemmeno da solo. Chi t’ha fatto cambiare idea, forse lei? – chiese Pinocchio volgendosi verso la Fata.
– No, sono stati i gabellieri.
– Chi?
– Un esercito di sanguisughe che ti chiedono dei soldi ogni volta che fai un passo. Attraversi il confine comunale? Devi pagare. Pianti il teatrino sulla pubblica piazza? Devi pagare. Lo metti in riva al mare? Devi pagare. Ti fermi per dormire dove capita? Devi pagare. Persino la cresta sui quei quattro soldi del biglietto facevano. E poi ai miei spettacoli arrivava sempre meno gente. Pare che ci si diverta di più con un coso che fa apparire delle immagini mutevoli su una tela, e un imbonitore che spiega la trama della storia. Ma ti pare che possa reggere il paragone con le mie marionette che parevano vive? Bah.
In poche parole, di lì a poco Mangiafoco si trovò in bolletta e dovette vendere la struttura del teatrino, tenendosi solamente le sue marionette per ricordo. C’era poco da fare, l’unica soluzione era tornare a casa, sconfitto e avvilito, senza un futuro che non fosse quello d’una mera sopravvivenza. L’unica consolazione era amarissima, perché non avrebbe dovuto dare questo dolore ai suoi genitori, morti entrambi qualche anno prima.
Capita però che il caso ci metta lo zampino per scombinare le carte, in peggio se sono promettenti, in meglio se sono disperanti, e quella volta fece in modo che due persone disilluse e solitarie s’incontrassero. Bastò poco: lo stesso sentiero, uno scroscio di pioggia, l’unico riparo a portata, e giusto il tempo per fare le presentazioni e capire che entrambi stavano fuggendo da un passato ingrato. Come naufraghi sulla stessa zattera decisero di darsi una mano a vicenda, e assieme si diressero alla vecchia casa di Mangiafoco.
– È una bella casetta – commentò Pinocchio. – Ci sarei tornato volentieri anch’io.
– Bella dici? Avresti dovuto vederla il giorno che arrivammo – disse la Fata con una leggera sfumatura ironica nella voce.
– Non capisco.
– Ti dico solo questo. Ti ricordi com’era Mangiafoco, sì? Bene, la casa era pressappoco uguale. Disabitata da anni non aveva una porta o una finestra che si chiudesse come si deve. Le tegole sul tetto erano come i denti d’un vecchio, di notte si potevano vedere le stelle, ma con la pioggia la situazione sarebbe stata meno affascinante. Le grondaie erano invase dalle erbacce e dall’edera, i legni di fuori erano arsi e mangiati dai funghi, mentre l’interno era il paradiso della muffa, e con le ragnatele che c’erano si potevano acchiappare tutte le mosche da qui all’Africa. Un disastro. Per fortuna anche qua ho degli amici.
– Amici? E chi ti conosce qua? – chiese Pinocchio.
– Gli amici di quand’ero una bambina dai capelli turchini. Un battaglione di corvi sistemò il tetto, poi due reggimenti di cavallette con un plotone di grillotalpa rosicchiarono l’edera sui muri e sul terreno finché quella si seccò e cadde. Uno squadrone di pipistrelli scelti fece piazza pulita delle ragnatele per farne delle morbide pellicce da regalare alle loro mogli per uscire la sera. Da tutti i formicai della regione arrivò una folta rappresentanza che per tre giorni spazzolò pavimenti e pareti portandosi via anche i granelli di polvere, che anche quelli possono servire per l’inverno, non si sa mai. Infine misi un pennello in mano a Mangiafoco e gli ordinai di dare una mano di calcina su tutti i muri.
Chiamato in causa, egli si sentì in dovere di aggiungere qualcosa.
– È stato terribile, non si poteva star fermi un minuto, e tutta la casa brulicava di bestioline, tanto che pareva una cosa viva. Non sono un tipo impressionabile e ne ho viste di tutti i colori, ma ti giuro che la faccenda mi faceva un po’ paura. In vita mia non ero mai stato un gran lavoratore, ma in quattro e quattr’otto lei mi fece diventare un muratore, un falegname, un imbianchino, e infine ci presi pure gusto e iniziai a fare altri lavoretti in casa senza nemmeno che lei me lo chiedesse.
La Fata osservava Mangiafoco con uno sguardo compiaciuto, come se quella metamorfosi fosse una delle sue magie, quando invece era solamente l’effetto della buona volontà e dello spirito di sacrificio, le stesse qualità che avevano salvato Pinocchio dal suo destino di burattino di legno.
– Infine, per passare il tempo, decisi di imparare a cucinare, e come hai ben provato non me la cavo male, anche perché lei non era mica quella gran cuoca, sempre con quelle minestrine insipide e quelle verdure acquose – brontolò l’omaccione.
– Ma stai zitto tu! – esclamò la la Fata. – Che se fosse per stato te avremmo fatto la dieta di montone con la senape e pollo allo spiedo tutti i santi giorni! Così ti ti sarebbe venuto il fegato grosso come quella testaccia vuota che porti sul collo!
Pinocchio che aveva fatto un passo indietro spaventato da quell’alterco restò come uno scemo vedendo i due fissarsi in silenzio per qualche attimo per poi scoppiare a ridere fino alle lacrime. Non riusciva a capire, qualcosa di quel rapporto tra loro due gli sfuggiva, era qualcosa di diverso ma indecifrabile. Con gli anni avrebbe compreso e, avendo fortuna, anche provato.
La Fata si avvicinò a Pinocchio e si chinò per fissarlo bene in volto.
– Vedi bene che tutti passano delle disavventure, anche coloro che sembrano forti, ma con un po’ di fortuna e spirito di adattamento si può affrontare qualsiasi difficoltà. Io ho avuto la buona sorte di incontrare Enore, e lui di incontrare me. Assieme abbiamo sistemato questa casetta, e ora viviamo di quanto ricaviamo dalla natura, l’olio dei suoi ulivi e il miele delle mie api. Niente più magie, niente più spettacoli, solamente una tranquilla vita in campagna. Non ci manca nulla, e c’avanza pure il tempo per svagarci un po’, io con i miei fiori in giardino ed Enore con tela e pennelli.
– Lui? Lui dipinge pure?
– Sì – confermò la Fata. – E dovrai ammettere che è pure bravino. Sai, ha fatto pratica con gli scenari del suo teatro.
– Ah, questa poi mi mancava di sentire – disse Pinocchio, grattandosi la testa con un istintivo gesto d’incredulità.
Su quella scenetta continuava però a gravare una nuvola nera che non avrebbe mai smesso di occupare i pensieri di Pinocchio.
– Tu dici che tutte le difficoltà si possono affrontare, però se son qui è perché sto cercando un modo di far guarire il mio babbo, e finora non è che io abbia avuto molta fortuna. Ti confesso che sto anche perdendo la speranza.
– Sbagli – lo contradisse la Fata. – Se sei arrivato fin qui è segno che sei fortunato. Hai percorso molta strada, attraversando boschi infidi e contrade pericolose, e infine hai pure incontrato degli amici senza nemmeno cercarli.
– Hai ragione, però intanto il mio babbo è malato e io non so come aiutarlo.
La Fata rimase in silenzio. Si capiva che stava riflettendo, ma su cosa rimaneva il mistero. Infine fece qualche passo e andò alla finestra che guardava un bosco lontano.
– Forse era destino che tu arrivassi qui, forse so io come aiutare il tuo babbo, e non solo lui. Devi avere pazienza ancora un giorno, e domattina ti saprò dire.

 

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