Il processo – Quarta puntata

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Il processo – Terza puntata

  

   – Signor Kos, non prenda in giro questo tribunale. Gli investigatori hanno trovato i resti di animali morti nella sua proprietà, e lei stesso ha affermato che le servivano come materia prima su base alimentare. Non mi verrà a dire ora che…
   – Che?
   – Un momento. Signori, fate attenzione prego. Ciò che sto per dire potrebbe risultare troppo sconvolgente, per me lo è di sicuro, perciò se qualcuno non è ben certo della sua saldezza psichica farebbe meglio ad allontanarsi.
Il giudice Dessalier attese un minuto, e in quel lasso di tempo non smise di osservare i presenti. Nessuno si alzò, anzi le parve che l’attenzione fosse sollecitata allo spasimo, come se tutti, pur essendo in apprensione, del fatto di restare lì seduti ne facessero il punto d’onore.
   – Va bene, io vi ho avvisati.
Il giudice si volse verso l’imputato, fissandolo con odio a causa di quello che sarebbe stata costretta a chiedere.
   – Signor Kos.
   – Sì, signor Giudice?
   – Signor Kos, lei qui afferma di aver posseduto quegli animali, lei qui afferma che hanno fatto parte della sua dieta, lei qui afferma inoltre di non averli uccisi. Lei si è comportato come una belva? Lei li ha mangiati vivi?
Un mormorio percorse tutta l’aula, e con quello un brivido che si trasmise alle mani degli spettatori. Tutti smisero di picchettare sui loro device, in attesa della risposta.
   – Oh, no, assolutamente no, non scherziamo.
   – Non mi pare che questo processo sia uno scherzo, signor Kos, e se lo pensa si accorgerà ben presto di quanto lei si stia sbagliando.
   – Mi scusi, non volevo mancare di rispetto. Ciò che volevo dire è che gli animali morivano da sé, e io solo quelli trattavo a uso alimentare.
   – Ah, meno male, per un attimo ho pensato che… Allora, se ho capito bene, lei aspettava che un animale morisse di vecchiaia o per qualche altro accidente.
   – No.
   – No?
   – Sarebbe stato un sistema affidato al caso, assolutamente poco pratico. Vede, signor Giudice, i nostri antenati allevavano quei tipi di animali per un periodo che garantisse la massima efficienza, ovvero li nutrivano fino a quando quelli erano in grado di fornire a loro volta una sufficiente quantità di cibo, e solo a quel punto li uccidevano.
   – Orribile.
   – Ne convengo, signor Giudice. Io invece ho programmato il loro ciclo esistenziale in modo che, nel momento ottimale, cessassero naturalmente di vivere.
   – Non mi pare che questa sua pratica la esenti dalle accuse. In fondo lei ha programmato la loro uccisione per mezzo della genetica.
   – Lei ha perfettamente ragione sugli aspetti che riguardano la programmazione, ma una cosa è morire naturalmente e un’altra è venire uccisi. Lei, come giudice, dovrebbe più di tutti apprezzare la differenza.
   – Sono spiacente, ma io non riesco a vedere cosa ci sia di naturale in un’esistenza programmata per durare un periodo prefissato.
   – Esatto, c’è ben poco di naturale in tale procedimento, ma non lo è nemmeno per altri simili che invece consideriamo perfettamente accettabili, come quelli utilizzati per ottenere i grandi felini da compagnia, innocui e onnivori, gli uccelli supercantori, i morbidi semprecuccioli, e via dicendo. Sono tutte esistenze deformate e sconvolte dalla biogenetica, costosi giocattoli dei quali non percepiamo l’intimo dolore. Almeno io posso affermare che i miei animali erano incoscienti ma liberi.
Con quell’ultima affermazione Vincente Kos aveva segnato un punto importante. Pur avendo tenuto illegalmente degli animali a scopo alimentare, era stato dimostrato che in realtà non li aveva soppressi, e che anzi non li aveva nemmeno maltrattati, perché non lo aveva fatto, perché gli animali non erano consapevoli e perché la società che lo accusava era colpevole di ben altri abusi.
   – Va bene, signor Kos, i miei esperti esamineranno le sue obiezioni. E, giusto per curiosità, quale nome avrebbe inventato per queste sue creazioni?
   – Ho preferito utilizzare una definizione antica, forse non la troverà col giusto significato nel continentale, li ho chiamati polli.
   – Mmm… ha ragione, non trovo nessun riferimento ad animali in questo lemma. E cosa sarebbero?
   – Sono degli uccelli.
   – Uccelli? Suppongo che lei avesse dei sistemi in grado di impedire la loro fuga.
   – Nessuno, signor Giudice, i polli non volano.
   – Uccelli che non volano? Anche questa è stata una sua idea?
   – No, signor Giudice, è sempre stato così, da seimila anni.
   – Che stranezza, non so se crederle, signor Kos.
   – Potrebbe recarsi nella mia proprietà per vederli. Se non sono stati sequestrati o fatti morire di fame, dovrebbe essercene ancora qualcuno vivo.
Il giudice Dessalier represse ogni manifestazione di infantile curiosità che stava per trasparire. Riprese il controllo di sé e si forzò a ritornare nei binari del processo, anche se ormai era più che evidente che tutta la faccenda stava prendendo una piega inattesa.
   – Lasciamo perdere, signor Kos, e mi dica perché lei, un uomo affermato, con un’invidiabile posizione all’interno di una grande azienda, si è messo a giocare con la genetica.
   – Nessun gioco, Vostro Onore, volevo dire signor Giudice. Circa quattro anni fa mi sono stati consegnati dei materiali che erano di proprietà di uno dei miei bisnonni. Per degli errori procedurali non erano pervenuti subito ai legittimi eredi, e, dopo tutto quel tempo ero diventato io il parente più prossimo. Sa, probabilmente dopo la guerra orientale avevano altro da pensare…
   – E allora?
   – Erano poche cose, fotografie risalenti al ventesimo e ventunesimo secolo, materiali che ho presto consegnato alla locale sezione di storia. Quelle immagini non mi dicevano nulla, facevano parte di un mondo che non avevo mai conosciuto. Ma tra quelle anticaglie c’era anche un libro, un vecchio libro, ancor più vecchio delle fotografie, e assieme a quello delle pagine con annotazioni, suggerimenti, aggiunte, informazioni utili.
   – Signor Kos, se non erro lei è accusato anche di sottrazione e appropriazione indebita di materiale storico, e ne desumo che lei non abbia consegnato quel libro a chi di dovere.
   – Purtroppo lei ha perfettamente ragione, signor Giudice. Avevo sì intenzione di inviare il ricettario al museo, però non prima di aver verificato se tutte le sottigliezze culinarie…
   – Culinarie?
   – Intendo la cura del processo di preparazione dei cibi.
   – Ah, ora ho capito.
   – Volevo sapere se tutto quel soffriggere, rosolare, sbollentare, gratinare, eccetera, avesse una sua ragion d’essere. Come biogenetista nel ramo alimentare ero la persona più indicata a valutare l’effettivo valore nutrizionale e sinestetico di quei cibi, però mi mancava la materia prima, e quindi me la sono creata in casa.
   – Signor Kos, la fermo. Il significato di gran parte dei termini da lei utilizzati non compare sul mio device, e nemmeno in quelli dei miei esperti. Potrebbe spiegarsi meglio?
   – Temo di non poterlo fare senza una dimostrazione pratica. Sono dei processi inerenti a sistemi di cottura di carni e verdure, al fine di esaltare il loro sapore, il loro aspetto, il loro profumo, e in qualche caso la loro digeribilità. Le confesso che in più di qualche caso mi sono trovato in imbarazzo.
   – Perché?
   – Quei processi erano grezzi ma efficaci, e i risultati andavano oltre le mie aspettative. A un certo punto l’esperimento si è evoluto, è diventato una sfida tra le mie conoscenze biogenetiche e le ricette contenute in quell’antico libro, una sfida tra me e lui, non tra me e la società.
   – Quindi dovremmo fidarci della sua parola? Lei sa bene che quella dell’imputato è legalmente priva di peso in mancanza di prove.
   – Signor Giudice, gli esperti avranno valutato sicuramente le proprietà organolettiche dei miei cibi ottenuti in modalità non convenzionale.
   – Definire non convenzionale il suo operato è perlomeno riduttivo, comunque sono io che alla fine mi troverò a emettere un giudizio, non il collegio di esperti. Lei è in grado di provare a me quanto afferma?
   – Certamente, non chiedo di meglio.
   – Perfetto, mi lasci controllare una cosa.
Il giudice Dessalier controllò i dati di riferimento del procedimento. Una fugace espressione di soddisfazione passò sul suo volto, poi si mise in comunicazione con il collegio dell’accusa. La conversazione non fu priva di elementi inconsueti. Alle domande del suo collegio il giudice rispondeva sempre più stizzita, come se stesse incontrando delle difficoltà inattese, fino a un perentorio invito a fare presto. Poi lei si volse verso l’imputato, sfoderando uno sguardo che palesava una soddisfazione non priva di malizia.
   – Bene, signor Kos, se al suo collegio di difesa sta bene, ho intenzione di valutare personalmente il sapore di quanto lei ha preparato prima di essere preso in custodia. Mi hanno riferito che, per fortuna, non si tratta di carne, bensì di un preparato a base di vegetali, e da un esame accurato non sono emersi dei componenti tossici, tranne forse un leggero eccesso di cloruro di sodio.
   – Si tratta di una pietanza semiliquida che aveva il nome di minestra, però non so se dopo tanto tempo…
   – Non tema, signor Kos, è stata conservata accuratamente come prova a disposizione di questo tribunale, e a nessuno è stato concesso di avvicinarsi con l’intenzione di manometterne lo stato.
Passarono un paio di minuti, durante i quali tutti i presenti, Vincente Kos escluso per ovvi motivi, non smisero di chiedersi cosa sarebbe stato portato in aula, finché bussarono alla porta accanto alla postazione ausiliaria. Qualcuno passò una scatola all’impiegato, e questi ne estrasse un oggetto marrone dalla forma cilindrica dotato di due prese laterali per trasportarlo, con un disco a copertura dell’apertura superiore, sempre marrone, sempre con una maniglia centrale. Il tutto non era più largo di una ventina di centimetri, e alto poco di meno.
   – Cos’è quell’oggetto, signor Kos, lo riconosce?
   – Si tratta di una pentola, ovvero di un contenitore di terracotta nel quale vengono inseriti gli ingredienti da lessare in acqua a fuoco lento.
   – Pentola, terracotta, lessare, sono tutti termini dubbi in continentale. Potrebbe essere più specifico, signor Kos?
   – Pentola è il nome del contenitore, terracotta è il materiale ricavato dalla cottura in forno dell’argilla, dopo averle dato la forma richiesta. Le confesso che la sua realizzazione mi ha fatto penare abbastanza, e tutti i tentativi…
   – Non siamo qui ad ascoltare la triste storia dei suoi fallimenti nella realizzazione di quell’oggetto, non divaghi.
   – Mi scusi, signor Giudice, dicevo… ah sì, lessare vuol dire cuocere in acqua portata a ebollizione.
   – Tutto qui?
   – Beh, ci sono dei dettagli, delle procedure, delle finezze, ma il procedimento grossomodo è quello.
   – Portate qui quella cosa, prego.
Già quando quella pentola venne spostata si diffuse nell’aria un odore dolciastro che fece storcere il naso a più di qualcuno, e anche Vincente Kos tradì una certa apprensione.
La pentola venne finalmente posata sulla postazione di Myriam Dessalier.
   – Signor Giudice, la prego, non sollevi il coperchio, non lo faccia!
   – E perché no? Teme forse di essere smentito? Ho detto che intendo giudicare da me ed è proprio quello che sto per fare. Questa è la mia decisione, signor Kos.
Grave errore.


Continua…

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