Aria fritta

Ieri, vista la bella giornata, sono andato a fare quattro passi e m’è capitato di passare accanto a un pretenzioso bar/caffè/ristorante, dove c’era chi, sia all’aperto che all’interno di una veranda, prendeva un aperitivo, un analcolico, un calice di vino, un caffè e altre bevande, nonché c’era anche chi pranzava o si godeva uno stuzzichino.
Vi chiederete dove stava il problema, e io ve lo spiego subito.
Pur passando a più di qualche metro di distanza, sono stato quasi sopraffatto da un disgustoso olezzo che da quel locale pubblico inequivocabilmente proveniva. Si trattava di qualcosa che nelle intenzioni avrebbe dovuto assomigliare all’odore di frittura di mare, peccato che, almeno così m’è toccato di sospettare, il pesce si sarebbe potuto etichettare come “defunto da lunga data”, e avrei trovato l’olio indegno persino di lubrificare il chiavistello del cancello d’un orto.
Comunque, fastidio a parte, peraltro ancora avvertibile a decine di metri di distanza, ciò che ha generato il mio sconforto non sono state le infime qualità organolettiche di quanto quella sedicente cucina stava arrangiando, bensì la serafica flemma di quegli sfortunati avventori. Ora, dubito che si trattasse di una scommessa o di una gara di resistenza, oppure anche di una comitiva di norvegesi che, presi dalla nostalgia di casa, andavano cercando gli afrori del loro hakarl, lo squalo fermentato, mentre invece propendo per una loro totale insensibilità fisiologica.
Suppongo di essere una persona difficile da accontentare, e soprattutto quando si parla di pesce, arrivando questo sempre freschissimo, e talvolta ancora vivo, nella mia cucina, e del quale mi occupo personalmente della pulizia e della preparazione. Però, pur ammettendo una mia particolare sensibilità olfattiva, pur accettando il fatto che gran parte dei prodotti ittici serviti nei ristoranti ha dormito su letti di ghiaccio, pur non pretendendo le stelle Michelin da un ristorantino di paese, non mi capacito come potesse risultare sopportabile mangiare o bere qualcosa avvolti da quella nube graveolente.
Un tè con i biscotti sarebbe come pucciare una sardina in quel liquido ambrato; un espresso si tramuterebbe in una tazzina di olio di frittura molto stanco; con kafkiana metamorfosi i fusilli diventerebbero dei calamari molto unti; odore e sapore di un gingerino sarebbero ambientalmente e subliminalmente soppiantati dall’idea di stare nella pescheria di un angiporto.
Per farla breve, o quelle persone, approfittando del superbonus del 110%, avevano isolato anche palato e narici, o magari avevano inalato a lungo quantità industriali di vernici nitro-sintetiche, oppure, ipotesi azzardata ma plausibile, si trattava di anatomopatologi in libera uscita, quando invece, opzione più realistica ma sconfortante, non erano umani.
Sconfortante perché devo presumere che, sopportando quei miasmi, ne siano abituati, ovvero che quella sia la loro dieta abituale, quei pesci da lunga pezza passati a miglior vita le cui reliquie vengono esposte in vendita nei supermercati, e si sa che l’umanità si misura anche col grado di cultura del cibo tramandata da generazione in generazione. È assai probabile che nessuno di quegli sventurati dell’ottavo cerchio dell’inferno dantesco mai abbia avuto occasione di sentire il profumo di mare nel loro piatto, che siano ormai avvezzi a ciò che viene ammannito loro dall’industria alimentare, dagli spacciatori di surgelati, dalle mense, da Glovo e JustEat, dalla pubblicità in genere, il che mi porta a due conclusioni concorrenti.
La prima è che, non essendo disponibile tutta questa gran quantità di prodotti freschi e naturali, meno ne consumano loro e più ne rimane per “chi sa”. Però esiste anche il rischio che, alla lunga, il truogolo rimpiazzi la buona tavola, e che i produttori di qualità vengano soppiantati dalle inesorabili leggi di mercato o stroncati da altrettanto inflessibili leggi del diritto (del più forte) che tutto vogliono omologare. E così anche il mio animo si divide, compiango quella manica di anestetizzati, ma nel contempo odio il loro torpore che, prima o poi, condurrà tutti al Soylent verde.

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4 thoughts on “Aria fritta

  • Come non condividere? Siamo troppi, da un lato, e siamo poco acculturati sul cibo: vogliamo spendere poco, senza capire che la qualità, la stagionalità, la ricerca si pagano. Meglio due uova (magari del contadino, un po’ più care che al supermercato, ma sempre economiche). Certo, il mio ragionamento non è molto democratico, ma è così. Poi gli avventori in questione non sono sfortunati, ma incompetenti

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