Appunti di viaggio T2

È ora che vi parli un po’ della Toscana. Se avete letto il postUn treno per la Toscana” già saprete che ci sono stato l’anno scorso, però si trattava di poco più di una scappata a Lucca e dintorni, più una gita a Pisa, esperienze interessanti, anche se rese difficoltose da una rete di trasporti pubblici che presenta delle smagliature insopportabili, e arrivo a definirle imperdonabili per una regione a vocazione turistica, però, sapete come s’usa dire, contenti loro…
Quest’anno, alla luce della mia passata esperienza, sono stato costretto a mettere da parte la mia attitudine ecologica e mi ci sono recato in automobile, una scelta che, oltre a permettermi una mobilità maggiore, mi ha condotto a nuove considerazioni interessanti su come ci si muove in quella regione.
Tralasciando le autostrade (che non amo) e percorrendo perciò la viabilità generale ho provato l’emozione di un viaggio nel tempo, ovvero mi sembrava di essere tornato agli anni ‘60, quando ci si spostava lungo percorsi tortuosi con un fondo stradale approssimativo, rattoppato e infido. Solamente le onnipresenti rotonde avevano il potere di risvegliarmi da quella illusione. A mettere il sale su quelle ferite d’asfalto ci pensava una segnaletica con limiti di velocità posti “a capocchia” (per non usare un’espressione più colorita), assolutamente disallineati con la realtà della tipologia del percorso. Confesso che non sempre ho rispettato quei limiti, e oltre a trovarli inadeguati ne percepivo la pericolosità in quanto, volendoli eventualmente osservare, prima o poi sarei stato violentemente tamponato. Il mio vecchio smartphone possiede una pratica funzione che lo trasforma in un navigatore satellitare, e tra le varie opzioni c’è quella che segnala visivamente e acusticamente quando si supera il limite di velocità prescritto. Ebbene, a un certo punto sono stato costretto a silenziarla perché il cicalino era diventato insopportabile tanto era attivo. Però non è questo il punto dolente, e ora c’arrivo. Fatti i conti, tra Aretino, Senese e Lucchesia, in Toscana avrò percorso in nove giorni circa milleduecento chilometri (1200km), e nonostante la mia condotta di guida relativamente “trasgressiva” non sono mai riuscito a superare un altro veicolo (tranne un trattore), il che dovrebbe far riflettere.
Mai contento, direte voi. E invece no, posso affermare che ne è valsa la pena, e che il percorrere quelle disagevoli strade mi ha permesso di raggiungere località suggestive, città d’arte e paesini storici, angoli pittoreschi e territori incantevoli, anche se, come scriverò in seguito, la possibile incazzatura è sempre dietro l’angolo.
Nell’Aretino avevamo preso alloggio in un tipico casale toscano, sulle colline di fronte a Palazzo del Pero. La visione di primo mattino era favolosa, irresistibile per il mio grezzo estro poetico, e mi sono arreso a quella cercando di catturare con le parole le sensazioni che nessuna fotografia saprebbe riprodurre. Ne è uscita una decina di righe che, se vi va, potete leggere qui.

Palazzo del Pero

Andando a Castiglion Fiorentino, un cinefilo come me non poteva non riconoscere la strada presente nel film “La vita è bella”, quella dove alla Balilla di Guido Orefice e Ferruccio Papini (rispettivamente interpretati da Roberto Benigni e Sergio Bustric) si rompono i freni. A tal riguardo vi riporterei un aneddoto abbastanza divertente forse ignoto ai più. Su quell’autovettura il motore non funzionava, perciò per girare le scene doveva essere trainata o spinta, anche a forza di braccia, il che portava sempre a sperare di udire la fatidica frase “Buona la prima!”. Va da sé che il rumore del motore fu poi aggiunto in seguito.
Bello il paese di Castiglion Fiorentino, come del resto lo sono i piccoli borghi arroccati sulle colline toscane, e bella anche la fortezza medievale, il Cassero, dove svetta una torre del XIV secolo. Dalla cima di quella si può ammirare tutta la Val di Chiana (foschia permettendo…), ma per farlo bisogna inerpicarsi su per delle disagevoli e malcerte scale, e potevamo noi rinunciare? Ovviamente no.

Castiglion Fiorentino – Ingresso al Cassero
Il Cassero - Torre
Il Cassero – Torre
La Val di Chiana

Una breve nota storica. Il nome originale di quel borgo era semplicemente Castiglion, dal latino Castulone, sorta sul colle non tanto per scopi difensivi, bensì per sfuggire alla malaria, una piaga che affliggeva la Val di Chiana duemila anni fa. All’epoca era una palude che si era formata a causa delle opere idrauliche eseguite dei romani per bloccare gli affluenti del Tevere, presumendo che fossero una delle cause delle sue frequenti inondazioni.
Con l’arrivo degli aretini il paese mutò il nome in Castiglion Aretino, per diventare poi Castiglion Perugino dopo essere stata espugnato da Perugia. Infine, a seguito della cacciata dei perugini e dell’espansione economica e politica di Firenze, prese il nome attuale. Tutto bene da allora? Forse no, poiché a causa della carenza in geografia di alcuni operatori postali, capita che della corrispondenza venga consegnata per errore a Castelfiorentino.

Castiglion Fiorentino

Nel museo del Cassero abbiamo poi scoperto che una delle piante tipiche della Val di Chiana era (e forse lo è ancora) il Guado. Forse questo nome non vi dirà niente, e anche al museo erano ignari della reale importanza delle foglie di quel vegetale. Se siete inguaribilmente curiosi e sommamente pazienti vi rimando al post “I girasoli”, presente nel blog lastoffagiusta.it, dove potrete trovare altre notizie sul Guado (ma non sarà facile…).
Una caratteristica della Toscana è la forte presenza di turisti inglesi, tanto che, complice il nostro aspetto poco italico, il più delle volte commessi e camerieri presumevano che provenissimo dalla terra d’Albione e si regolavano di conseguenza. Perfido, io li lasciavo fare, salvo poi, alla fine della loro esposizione, rispondere in inglese per poi chiosare con un “bravo, e adesso può dirlo anche con parole sue”. Per mia fortuna i toscani sono gente simpaticissima, che non la mandano a dire, ma che hanno pure un senso dell’umorismo ignoto dalle mie parti, altrimenti sarei finito male.
Dunque, dicevo, quella del turisti d’oltremanica è una presenza ben visibile (e soprattutto udibile), ma forse non sapete che vanta un’antichissima tradizione. Poco dopo la metà del XIV secolo il capitano di ventura John Hawkwood scese dall’Essex per mettersi al servizio di qualsiasi belligerante della penisola che pagasse bene le sue armate, monferrini, papisti, pisani, angioini, fiorentini, e trovandosi particolarmente bene in Toscana accettò di far italianizzare il suo nome in Giovanni Acuto, e alla fine del 1300 si ritirò nel castello di Montecchio Vesponi, oggi ancora in piedi proprio di fronte a Castiglion Fiorentino.
C’è altro?
Ovviamente sì.

Arezzo, per esempio. Nel centro storico ci sono strade dai nomi stranissimi, tipo Via dell’Orto (c’era un orto?), Via Spinello (ottima indicazione), Vicolo della Dea (quale?), Piaggia di Murello (son dovuto andare sul Devoto-Oli per scoprire cos’è una piaggia). Turisti ce n’erano, ovviamente, ma non troppi e non sciamannati, il che permetteva di passeggiare in relax, in silenzio e in vaga meditazione. Non sto qui a presentarvi una brochure turistica di Arezzo, se andate in internet troverete immagini e notizie a iosa, però mi va di sottolineare il fatto che anche in Piazza Grande (anche quella presente nel film “la vita è bella) l’atmosfera era tranquilla, e sotto le storiche Logge del Vasari ci si poteva concedere un drink o uno spuntino senza dover fare la fila, ovvero non è presente il “feticismo” turistico che troppo spesso invade altre città d’arte.

 

Arezzo – Piazza Grande
Arezzo – Piazza Grande

Non poteva mancare una visita alla Pieve di Santa Maria Assunta, un edificio un po’ strano in quanto è stato iniziato nel VI secolo, e terminato nel XIII secolo, perciò gli stili si sono sovrapposti, dal Romanico al Gotico. Purtoppo al momento della nostra visita l’edificio era in corso di restauro esterno, quindi mi sembrava inutile fotografare le impalcature, almeno quelle della facciata. Ma non è per curiosità architettonica o per motivi di culto che ci premeva recarci lì, bensì per la particolarità dell’archivolto del portale maggiore, le sculture policrome che compongono il “Ciclo dei mesi”. Eccole.

Arezzo – Ciclo dei mesi
Arezzo – Ciclo dei mesi
Arezzo – Ciclo dei mesi
Arezzo – Ciclo dei mesi

Nel blog Arezzo da amare di Marco Botti ho trovato una bella descrizione di queste opere d’arte, della quale vi riporto un estratto.

“Gennaio” è rappresentato con un’antica divinità, Giano Bifronte. Mentre la sua faccia anziana guarda al passato, l’altra più giovane volge al futuro. Il personaggio è collocato in un ambiente domestico e si scalda davanti al focolare, sorseggiando un bicchiere di vino. Il cibo cuoce in un grande paiolo, al di sopra del quale sono appesi i salumi a stagionare. “Febbraio” raffigura la potatura. Un giovane, dopo aver tagliato un ramo, lo sta lavorando per realizzare un arnese da lavoro. A “Marzo” un uomo, identificabile come “Marcius Cornator”, iconografia dedicata a questo mese diffusasi dal XII secolo, soffia dentro il suo corno a ricordare i venti bizzosi di stagione.
Spostandoci sull’altro lato dell’imbotto, si riparte con “Aprile” e un giovane con la ghirlanda in testa e un rametto fiorito in mano, a simboleggiare l’arrivo della primavera. “Maggio” è invece un cavaliere con scudo: il giungere della bella stagione segna infatti anche la ripresa delle campagne militari. “Giugno” è raffigurato come un contadino intento a mietere il grano maturo con la falce.
Cambiando di nuovo registro, ma rimanendo sullo stesso lato, si ricomincia con “Luglio”, mese nel quale il grano viene battuto. Ad “Agosto” il bottaio, con un albero di fichi accanto, controlla grazie al mazzuolo che i recipienti abbiano i cerchi apposto, in previsione di “Settembre”, mese della vendemmia, rappresentato da un giovane che raccoglie l’uva.
Saltando di nuovo sul lato destro si conclude il ciclo con l’ultimo registro. “Ottobre” è raffigurato con il contadino che semina il grano, usando il mantello come sacca. A “Novembre” c’è la raccolta delle rape. A “Dicembre” si ammazza il maiale, del quale “non si butta via nulla”. La macellazione del suino era un vero e proprio rito che dava la possibilità di preparare anche i salumi per i mesi a seguire, che si ritroveranno appesi, come già detto, nella raffigurazione di Gennaio. La scena dell’allevatore, che con il coltello squarta il malcapitato animale, è una delle più iconiche dell’intero “Ciclo dei mesi”.

Vorrei farvi notatare un dettaglio divertente. Osservate le statue di Giugno (IVNIVS) e di Febbraio (FEBRVARIVS) potrete scoprire che le scritte sono state incise specularmente. La spiegazione è ovvia, e risiede nell’alfabetismo imperante nel Medioevo. Lo scalpellino incaricato di incidere il mese non sapeva leggere, e quando il capomastro gli consegnò una pezza di stoffa con la scritta da riprodurre, il poveraccio, per far prima, pensò bene di appoggiarla direttamente sulla pietra, e pestando col palmo della mano fece in modo che il carboncino vi si trasferisse. In fondo per lui si trattava di simboli senza senso, o di qua o di là erano la stessa minestra…
Però c’è anche un altro motivo per cui ci tenevamo a vedere quello specifico portale. Tutto ha a che vedere con l’arte tessile di Rossana, la quale è una delle poche quilter che conosce l’antica tecnica del trapunto fiorentino, in realtà nata in Sicilia, però resa famosa grazie alle trapunte realizzate da ricamatori sicilianti per la famiglia fiorentina dei Guicciardini. Proprio mediante il trapunto fiorentino Rossana ha realizzato una riproduzione di una di quelle statue della Pieve di Santa Maria Assunta, e per la precisione il mese di Settembre.

Rossana Ramani – HIC EST SEPTEMBER

Si sarà già capito che non troverete delle cartoline in questo post, ma solamente delle piccole cose significative, almeno per noi, e un’altra stranezza ce l’ha fornita sempre la Pieve di Santa Maria Assunta,  ma dietro, ossia il colonnato esterno dell’abside.
Chi sa qualcosa di malta e mattone conoscerà certamente la tradizione della piastrella “sbagliata”. Se vi trovaste a osservare un pavimento o una parete piastrellati in qualche edificio un po’ datato, potrebbe capitarvi di scoprire in una zona defilata e poco visibile una piastrella che è stata posata in maniera palesemente scorretta. Per antica tradizione i piastrellisti commettevano volontariamente questo errore ritenendo che la perfezione sia di esclusivo appannaggio della divinità, qualunque essa sia.
Anche nel colonnato della Pieve ritroviamo un difetto che rompe l’armonia della costruzione, e lo fa in maniera tanto palese quanto ridicola.

Arezzo – Pieve di Santa Maria Assunta
Pieve – Pieve di Santa Maria Assunta

Negli anni si sono susseguite molte interpretazioni per tale scelta architettonica, col fusto storto, in apparenza quasi aggiustato, e il capitello bovino, malamente volgare a confronto con i restanti che richiamano l’ordine corinzio. Oltre alla volontà di non arrogarsi il diritto divino di essere perfetti, ci sarebbe la storia secondo la quale all’epoca era stata innalzata una colonna per ogni frate della Pieve, ma uno di loro era gobbo, per cui…
Più attinente alla religione il monito che chi si affida al Diavolo, rappresentato da quelle teste cornute, non otterrà mai niente di buono e ammirevole, come pure si potrebbe pensare che la colonna sia di conforto a chi appunto perfetto non è, ma che nonostante i suoi palesi limiti e difetti potrà egualmente contribuire a sostenere una costruzione più grande e magnifica. Fate voi.

A Siena.
Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire.
Badate, vi avevo avvertiti all’inizio di questo post: la possibile incazzatura è sempre dietro l’angolo. In questo caso si tratta di quello posto al termine del Vicolo San Paolo, dove ho avuto la disgrazia di assistere a un doppio delitto.

Crimine n°1 – Piazza del Campo, una delle più belle viste del mondo, unica e insostituibile, sogno e meta di ogni turista che ama il Rinascimento, irriducibile prospettiva sulla storia e sull’arte e molto altro, eccola violentata, prostituita, dissacrata.
Ciò che vedo è solamente una distesa di poltroncine di plastica grigio ardesia con gambe metalliche lucenti di cromo, come se un’enorme chiazza di petrolio avesse coperto tutta la superficie di un mare altrimenti cristallino. La splendida facciata del Palazzo Comunale seminascosta da un palco enorme, ai lati del quale si innalzano due torri di tubi metallici, brutte come delle incrostazioni di calcare, e su quelle ecco le schiere di diffusori acustici pronti a distruggere come dei lanciafiamme sonori ogni residuo di silenziosa suggestione.
Per molti, troppi, ci sarà il concerto. Per me solamente lo sconcerto.
Maremma maiala impestata lurida arroventata, con tutti gli spazi che ci sono a Siena, proprio in Piazza del Campo dovevate montare su quel luna park? Che poi, dico io, se mi garba tra un mese posso anche tornare giù a vederla la piazza come si conviene, Ma pensate a uno che arriva dal Canada, dalla Norvegia, dal Giappone, da qualsiasi posto distante migliaia di chilometri, e che ha visto Piazza del Campo solamente nei film o sui libri, chissà che ricordo si porterà a casa, e già immagino cosa racconterà quando gli chiederanno di Siena: “Ah bellissime seggiole, pulitissime, e poi sistemate in maniera così ordinata, uno spettacolo per gli occhi. Per non parlare del groviglio di tubi zincati, si trattava era sicuramente un’installazione artistica di qualche archistar…”.

Crimine n°2 – Guardo il banner a destra del palco per capire chi fosse quello scellerato che aveva deciso di esibirsi proprio lì.
Uto Ughi.
Uto Ughi? Ma sono forse impazziti? È assurdo suonare un Guarneri o uno Stradivari all’aperto, che già in chiesa o in teatro ci vuole l’ambiente adatto per apprezzarne il suono. Va da sé che per far sentire quel “suono” a tutta la platea esso andrà amplificato, rovinandone la percezione, un po’ come andare a guardare un quadro di Tiziano a lume di candela indossando degli occhiali da sole.
Chi scrive “sa” di acustica, e può assicuravi che le deboli armoniche generate dall’abete rosso della Val di Fiemme possono essere “spianate” durante la cattura e la riproduzione, perdendo tutti i battimenti che ci fanno distinguere, pur avendo la stessa frequenza in Hertz, il suono del violino dal rumore di una smerigliatrice a disco che sta troncando un pezzo d’acciaio.
Per dirla veramente tutta, anche i trasduttori in uscita (leggi altoparlanti) lasciavano a desiderare, più adatti alla musica pop che a un concerto sinfonico, robaccia che entra in risonanza già a 80Hz e che si spegne appena toccati i 20kHz.
Insomma, anche Uto Ughi tiene famiglia, e pare che più della musica, più della cultura, più della storia conti “l’evento” nel quale più si è e più ci si diverte. De gustibus

Che altro dire, mi sarei volentieri sacrificato nel salire i 300 gradini della Torre del Mangia, ma temevo che, giunto in cima a quella, la vista di cotanto scempio avrebbe potuto indurmi a compiere dei gesti insani, ragion per cui ho preferito rinunciare e sono andato consolarmi con una freschissima Bulldog.
(Sì, lo so, sembro un po’ come Alain Elkann, ma come disse lo scorpione alla rana, è nella mia natura).

Siena – Palazzo Comunate e Torre del Mangia

Per il resto a Siena tutto bene, o quasi (e ti pareva). Non si smetterebbe mai di girare per le antiche vie, e per quanto uno si avventuri in stradine e vicoli è quasi impossibile perdersi dato che la Torre del Mangia funge Stella Polare.
Santa Maria della Scala è stata una bella scoperta. Si tratta di un complesso museale sorto in quello che fin dal XII secolo era l’ospedale di Siena, e presenta degli aspetti unici, sia come ospedale che come museo. Ci si aspettebbe di trovare le solite cose, quadri, statue, oggetti d’arte, eccetera, quando invece ci si inoltra in una struttura complessa, stratificata, e ogni piano è dedicato a un periodo storico e a una funzione specifica dell’edificio. Massimo è stato il nostro sconcerto quando abbiamo saputo che nei grandi saloni con gli alti soffitti a volta, affrescati nel XV secolo, venivano ricoverati i pazienti fino a una quarantina d’anni fa.
I piani inferiori del museo sono ancora visibili le grandi strutture utilizzate come magazzini e cisterne, oltre al vagamente inquietante Oratorio di Santa Caterina nella Notte.

Siena – Oratorio di Santa Caterina nella Notte

Più sotto non ci siamo inoltrati per evitare di buscarci un malanno. In quei giorni si pativa un caldo canicolare, con temperature di giorno stabilmente sopra i 35°C, mentre in quei sotterranei era come stare in una stanza con l’aria condizionata al massimo del raffrescamento. Essendo sudati la polmonite era assicurata, perciò sarebbe stato utile all’ingresso di quella zona la temporanea fornitura di una coperta leggera da mettere sulle spalle. Forse d’inverno andrà meglio…
Usciti da lì siamo andati a vedere (impossibile che sfugga alla vista) il magnifico duomo.

Siena – Duomo
Siena – Duomo

Tutto bello, bellissimo, dentro e fuori. Unico neo la fastidiosa compresenza di baracchini per lo spaccio di bibite, cappellini, panini, magliette, souvenir e paccottiglia varia giusto accanto alla scalinata. Non se ne sentiva la necessità estetica, anche perché nelle vie adiacenti al duomo avrebbero benissimo trovare posto tutte quelle attività che dell’antica Siena hanno ben poco.
Se la visita della città è stata un’esperienza molto gratificante, ancor di più incantevoli sono stati i paesaggi che abbiamo sfiorato durante il viaggio, così aperti, così luminosi, così armoniosi da farci dubitare della loro reale esistenza. Non erano semplici colline, piccole valli, solitari casali, schiere di cipressi, sembravano scenografie di uno spettacolo destinato a incantare, e poi quel colore, così caldo, quello vero della Terra di Siena. Sorprendente.
E poi ho capito una cosa (solo al terzo giorno, ma si sa che io c’arrivo dopo, con calma). Le case, anzi i casali, e per la precisione le loro pietre, quelle cambiano tutto. Mi si chiederà cos’abbiano di tanto speciale, in fondo le pietre son pietre. E invece no. Anche qua da me ci sono delle case con le pareti in pietra, e la mia pure, però in Carso e in Istria danno l’impressione di essere state poste lì per delimitare, per difendersi, per chiudersi a riccio, per combattere le avversità umane e naturali, perciò ogni casa appare come una fortezza minima. In Toscana no, è diverso. Ogni pietra mi richiama alla mente una singola cellula di un essere composito, immobile certo, ma sorto dalla natura e vivente in essa, con l’affascinante irregolarità dei corsi, la varietà di sfumature, la casualità disordinata delle aperture, il pigro rifiuto di ergersi in altezza, e il senso di accoglienza che emana. Mi piace immaginare che tra la gente toscana e le sue case ci sia una sorta di contaminazione reciproca che regala a entrambe le parti la naturalezza che le contraddistingue. 
Comunque lì di foto non ne ho scattate, sarebbe stato impossibile trarre un minimo senso estetico da quei panorami con una fotocamera meno che professionale, perciò quei ricordi ce li teniamo per noi, e ben stretti.

Se è chiaro che Arezzo e Siena costituiscono tappe obbligate per ogni tour in Toscana, noi comunque eravamo maggiormente attirati dai piccoli borghi nei dintorni.
Di Castiglion Fiorentino ho già scritto sopra, e già che eravamo nel Senese ci siamo spinti fino a Montalcino, la patria del famoso Brunello. Girando per le viuzze si capiva benissimo chi era il vero santo patrono di quel borgo: Bacco. Enoteche e rivendite di vini locali erano frequenti quanto i caffè in un centro città, e si aveva solamente l’imbarazzo della scelta.
All’enoteca della Fortezza abbiamo dato un’occhiata ai prezzi, e con una trentina di Euro ci saremmo portati a casa una bottiglia di Brunello. C’erano però delle bottiglie che costavano almeno dieci volte tanto, per cui ho ragionato che, come per l’extravergine di oliva c’è olio e olio, a Montalcino c’è Brunello e Brunello, quindi avrei rischiato di comprare semplicemente un souvenir con l’etichetta altisonante. Non potevo comunque scappare da lì senza assaggiarlo, e così in una vicina enoteca ci siamo concessi un bicchiere di Brunello. Era buono, molto buono, riempiva tutto il palato con i suoi aromi, devo confessare che vale il nome che porta, e trovo che il prezzo così alto sia giustificato dalla ridotta estensione del territorio che è dimora di questa pregiata qualità di Sangiovese. Però con i suoi 14 gradi e passa non è che si possa dare una festa tra amici, al terzo bicchiere si è già stesi, perciò i toscani mi perdoneranno se io, non esattamente ferrato in fatto di vini nobili, resterò fedele al mio burbero Refosco dal peduncolo verde.

Altra atmosfera, meno alcolica e più autentica, a Cortona. Anche lì, come nella maggior parte dei piccoli borghi toscani, le erte stradine impongono delle calzature adatte a muoversi su fondi relativamente sconnessi, magari non proprio delle pedule, però tacchi alti e mocassini leggeri non sono indicati.

Cortona

Girando per Cortona siamo capitati per caso (come al solito) in una grande sala facente parte del Convento di san Francesco dov’erano esposte le opere di Luigi Agnelli e Kate Bray, rispettivamente uno skipper e un’archeologa, i quali nel disegno hanno trovato insieme la loro formula magica in grado di dare via a opere di eccezionale fattura grafica. Se vi va di dare un’occhiata, questo è il loro sito web: LandK – design.
C’abbiamo passato un’oretta in quelle sale, affascinati ma anche incapaci di decidere quali opere fossere le migliori, perché almeno di un paio volevamo portarci a casa una riproduzione. Questa è quella che ho scelto per me, si intitola “Il cercatore di tesori”

Luigi Agnelli e Kate Bray – Il cercatore di tesori

La vera scoperta di questo viaggio è stata però Anghiari, sì, quella della famosa battaglia e dell’ancora più famosa opera incompiuta di Leonardo da Vinci.
Vi chiederete quali monumenti, quali quadri, quali edifici storici mi abbiano così favorevolmente colpito ad Anghiari, e io vi dirò: nessuno. Niente arte roboante, niente sfarzo, niente vanitosa nobiltà, ma solamente la vera atmosfera di un umile ma fiero borgo toscano.

Anghiari

Stradine strette e ripide, sovrabbondanza di scalini, piccoli scorci sorprendenti, tanto che a tratti mi pareva di essere ritornato all’Albaicin di Granada, tra antiche case mantenute con dignitosa cura, senza fronzoli, ma anche e soprattutto senza cemento. Perché tra cent’anni quelle pietre saranno ancora lì a muta testimonianza di un periodo storico turbolento e prolifico, mentre tutto quello che era cemento sarà tornato sabbia che scorrerà via nella grande clessidra della storia.

Anghiari

Sempre per caso, addentrandoci in un vicolo del centro storico abbiamo scoperto il MUBEC, sigla che sta per “Museo della beccaccia”, ovvero tutto quello che volevate sapere sulle beccacce ma non avete mai osato chiedere. Vi confesso che mai avrei sospettato la possibilità che fosse possibile organizzare una mostra espositiva così estesa attorno a un singolo volatile, ma mi son dovuto ricredere. La beccaccia, tipica di quella zona, presenta aspetti unici e, oltre a essere ben trattata nelle tradizionali ricette toscane, è dotata di una particolare penna chiamata “del pittore”, in quanto utilizzata per le rifiniture più sottili, e si sa che di clienti la beccaccia ne trovava in Toscana…

Poppi, il nome di quella località non diceva molto, però la presenza di un castello ci attirava, e allora ci siamo fatti forza e abbiamo ancora una volta affrontato le tortuose vie del Casentino per raggiungerla.
Ottima scelta.

Poppi – Castello
Poppi – Castello

Il castello dei Conti Guidi, legato più o meno storicamente alla figura di Dante Alighieri come soldato e come poeta, è tenuto benissimo, e di ciò dobbiamo essere grati al Comune di Poppi che ne ha straordinaria cura.
L’interno non è più quello del XIII secolo, ma le modifiche apportate nel XV secolo non ne hanno stravolto malamente la natura, anzi hanno aggiunto un non so che di fiabesco.

Poppi – Castello
Poppi – Castello

Per gli appassionati di storia segnalo che al suo interno è presente un bel diorama della battaglia di Campaldino, combattuta nei pressi di Poppi nel 1289 (alla quale partecipò anche Dante).

Poppi – Castello – Battaglia di Campaldino

E ora andiamo in Lucchesia, per la precisione a Benabbio, un piccolissimo borgo per raggiungere il quale bisogna arrampicarsi su per una collina nei pressi di Bagni di Lucca. Ero lì per lo stesso motivo dell’anno scorso, ovvero il concorso letterario organizzato dall’associazione “Il muro magico“.
Ma prima di parlarvi del concorso vorrei portarvi nella vicina Collodi, il borgo dove nacque Angiolina Orzali, madre di Carlo Lorenzini, in arte Carlo Collodi, e dove il famoso scrittore trascorse parte della sua infanzia. Suppongo la scelta di prendere tale nom de plume sia da attribuire a dei ricordi felici che nella caotica Firenze avrebbe rischiato di smarrire.

Collodi
Collodi

Anche se nel romanzo “Le avventure di Pinocchio” si ricava l’impressione di un’ambientazione diversa, più ampia, e per di più vicina al mare, è facile immaginare che per la miseria nella quale si dibattono molti personaggi lo scrittore si sia ispirato a quella che all’epoca aleggiava nei piccoli borghi defilati come Collodi .

Benabbio, dicevo, e allora eccola qua.

Benabbio
Benabbio

Ebbene, si potrebbe malignamente pensare che io abbia realizzato questo lungo post solamente per poter scrivere della mia partecipazione al XV concorso letterario “Il treno”, quando invece è proprio così. Del resto lo dichiaro senza remore in testa a questo blog: “Vanitas vanitatum et omnia vanitas“. Andate e vedete.
In genere sono restio a cimentarmi in tali eventi, non sono adeguatamente attrezzato e ancora non ho compreso se la mia è supponenza o temerarietà. però il treno trova da sempre un posto speciale nel mio cuore, ne ho scritto, in prosa e in versi, e quindi l’esca era troppo allettante per non abboccare.
Si potrebbe ben dire che la pesca è stata miracolosa, giacchè ho incredibilmente vinto il secondo premio nella sezione racconti brevi.
Se vi va di leggerlo, il racconto “La vacca e le corna” si trova sempre su questo blog. Anche se nella trama i protagonisti umani sono frutto di fantasia, i protagonisti meccanici e le citazioni storiche riguardanti i fatti narrati sono fedeli alla realtà. Prima di scrivere questo racconto mi sono documentato dettagliatamente, e sono abbastanza convinto di possedere una mole di riferimenti su quel particolare treno che pochi possono vantare.

Anche se non avessi ricevuto una così benevola valutazione del mio testo, quei pochi giorni (troppo pochi) che ho trascorso a Benabbio sarebbero stati comunque piacevolissimi, tanto di farci accarezzare l’idea di tornarci per un soggiorno più esteso. Il borgo offre solamente quello che serve per rilassarsi, relativo isolamento, tranquillità, prodotti genuini e altrettanto genuini abitanti, disponibili e abbondantemente forniti di una gradevolissima dose di ironia. Cosa desiderare di più?

Come uso fare abitualmente per i testi che scrivo per il blog di Rossana, stavolta il viaggio è stato talmente interessante che mi va di aggiungere dei ringraziamenti.

Si ringraziano

  • Giorgia e Romano di Palazzo del Pero, per la loro squisita accoglienza.
  • Il ristorante da Beppone di Palazzo del Pero, per i pici con l’aglione.
  • Giove Pluvio, per averci dato buca tutta la settimana.
  • Il Circolo dei Forestieri di Bagni di Lucca, per una cinta senese da leccarsi i baffi.
  • Paola e Andrea a Benabbio, per la pazienza e l’insuperabile affabilità.
  • I Giardini del Vicario di Anghiari, per i freschissimi spritz realizzati a regola d’arte.
  • Silvana di Benabbio, per averci preparato un appartamento perfetto.
  • Il Caffè Pasticceria Stefano di Arezzo, per il memorabile gelato gusto arancio e zenzero.
  • La giuria del concorso letterario, per essere stata veramente benevola con me.
  • Il nostro “vecchio” Lumia Microsoft con la sua app “Here”, per trovare sempre la strada.
  • La buona sorte, per aver fatto il viaggio con noi.
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