Facciamoci del male

Purtroppo è così. Quando si va in osmiza è inevitabile mangiare troppo, bere troppo, ridere troppo, vivere troppo.
Del resto, come resistere alla malvasia e al refosco? Come non farsi tentare dalla pancetta, dal prosciutto crudo, dal sottogola e da tanti altri prelibati salumi? E se poi, per colmo di sfortuna, l’osmiza si trova su un colle dal quale si può ammirare il verde panorama che si stende sotto un cielo terso, perché inevitabilmente è il tempo è stupendo, come non lasciarsi andare?
Non c’è niente da fare, la disfatta è completa, si tornerà a casa appesantiti e leggermente brilli. Unico linimento è la strada, quattro chilometri ad andare e quattro a tornare, su una cinquantina di metri di dislivello, ovviamente a piedi per bruciare una minima frazione del colesterolo connesso alla libagione.
Non frequento quasi mai ristoranti e trattorie, i miei gusti sono semplici ma precisi, e l’osmiza, con i suoi prodotti rustici e genuini, allogeni a preparazioni elaborate, a marchi commerciali, a spaccio di catering, a fumo negli occhi, è l’ambiente nel quale lo spirito trova pace, nello spirito alcolico e nello spirito degli allegri commensali.
Ricordo ancora bene quel periodo buio durante il quale tutti noi fummo costretti a una sorta di arresti domiciliari, tutti detenuti innocenti che la peste cinese aveva condannato a “non vivere” per un anno e passa. Allora mi mancavano come l’aria quelle giornate di insalubre spensieratezza, quei momenti di gioia minima, tanto che alla fine la mia amarezza trovò sfogo in una poesia intitolata “Osmiza” .

 

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