Siamo alle solite Calimero

Eh sì, siamo alle solite, ovvero che ancora una volta, l’ennesima, mi è capitato di constatare che avevo ragione di sentire odore di bruciato ben prima che si notasse una colonna di fumo.
Qualcuno potrebbe sospettare che io porti sfiga, oppure che butti nel piatto una montagna di fosche previsioni nella certezza che prima o poi qualcuna di quelle si avvererà. Comunque la pensiate vorrei ricordarvi che la mia formazione tecnica e l’attività conseguente mi ha condotto a considerare con attenzione quanto detta la Legge di Murphy, e troppe volte ne ho visto le sue spiacevoli ricadute sulla realtà, il che mi ha portato a considerare con pessimistico scetticismo molti aspetti della società e della tecnologia.
Veniamo all’attualità.
Da qualche settimana arrivano sui media notizie sconfortanti su trasporto aereo civile, overbooking, aeroporti intasati, cancellazione di voli, passeggeri lasciati inopinatamente a terra, ritardi e altri disguidi sul tema. In buona sostanza pare che il mezzo di trasporto più veloce sia diventato anche quello più problematico da utilizzare.
Vi confesso che tutta la faccenda non mi tange più di tanto, dato che sono anni che non prendo più un aereo, però non ho potuto soffocare un meschino moto di soddisfazione al ricordo di un vecchio post che scrissi ben undici anni fa, e che oggi mi torna buono per spiegare come mai sarebbe meglio uscire da questa ubriacatura aviotrasportata per ritrovare il vero senso del viaggio.
Il post si intitola “I conti non tornano (in treno)”, e oggi mi va di riproporvelo qui.

Si fa presto a dire luce. Fiat Lux! Ma poi è necessario distinguere, graduare, apprezzare. Ci siamo talmente immersi dentro che facciamo fatica a vederla, la luce, però ne subiamo gli effetti.
L’alba, se il cielo è sereno, è come una dose di adrenalina, ti mette in moto anche se non lo vorresti (per questo motivo i pigri evitano di svegliarsi all’alba, li rovinerebbe). La luce pallida di una giornata uggiosa è in grado di smontare le velleità anche di un probo stacanovista. La luce anodina di un acquario è una specie di massaggio psichico. La luce lunare è in grado di illuminare ciò che di giorno resta celato ai nostri occhi abbagliati. E così è per il tramonto, quando finalmente si può guardare in faccia la luce, solo un attimo prima di perderla, che scopre il nostro bisogno di fermarsi a riflettere, tirare un sospiro, tornare umani.
Era proprio quello che stavo facendo, poco prima di cena, quando alcune minuscole scalfitture nella volta attirarono la mia attenzione. Ne contai cinque, bianche, parevano dei graffi provocati da un singolo artiglio, e andavano nelle direzioni più diverse. Poi mi resi conto della loro natura: scie.
Non abitando dei paraggi di una stazione aeroportuale, trovai perlomeno strano che in quel momento ben cinque aeromobili stessero sfrecciando sopra la mia testa. Il tramonto fece il resto, istigandomi alla considerazione di quel fatto. Riflettendoci sopra (o sotto, vista la mia posizione) giunsi che alla conclusione che, purtroppo, ciò non era anomalo, tutt’altro.
La prima volta che andai a Londra fu trentacinque anni fa, in treno, il mitico Direct Orient proveniente da Beograd, destinazione Calais, e poi il traghetto e un trenino che pareva uscito da un film di decenni prima, fino a Victoria Station; in tutto 36 ore di viaggio, un giorno e mezzo di scuotimenti, gente strana, scompartimenti afosi, panini freddi. Però riuscii a dormire. Poco prima del Sempione mi arrampicai sul vano portabagagli sopra il corridoio e passai impunemente il confine svizzero e quello francese nelle vesti di un grosso zaino addormentato.
L’anno seguente, per evitare quella sfacchinata a chi mi accompagnava (e m’accompagna tutt’oggi), optai per l’aereo, un volo charter ovviamente. Era un TriStar della British Airways da Malpensa a Heathrow. All’epoca Malpensa era una pista di cemento in mezzo alle erbacce, un pugno di vecchi aeroplani dismessi dalle compagnie di bandiera, il tutto a ridosso di un parallelepipedo di cemento in una località raggiungibile con un autobus asfittico, ben altra cosa di ciò che mi stava attendendo in Albione.
Il volo mi costò all’incirca 100.000 lire, grossomodo il triplo di quanto avevo speso l’anno precedente, un sacrificio controbilanciato però dal risparmio di tempo. Devo confessare che, pur stando pigiato su una poltroncina più stretta di quella di un autobus urbano, nonostante i modi sbrigativi e assai poco cortesi della hostess inglese (che non capivo, che non mi capiva, che comunque non capirei neppure oggi), e benché si trattasse, più che di un volo, di un salto della durata un’oretta e mezza, mi sentivo un signore. Io stavo andando a Londra, in aereo, wow!
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora; ormai volare (mediante aeromobile ovviamente) ha smesso di apparirmi come un’esperienza affascinante e desiderabile. Gli aeroporti, grandi e piccoli, belli e brutti, con la loro popolazione effimera, le complicazioni assurde, le attese frettolose, ebbrezza e angoscia spalmate uniformemente, mi attirano quanto l’atrio di un condominio degli anni ’60.
Sono cambiato io? Ovviamente.
E’ cambiato qualcos’altro? Anche.
In trent’anni il rapporto costi-benefici (apparenti) si è capovolto, a discapito del treno e a favore dell’aereo. La stessa tratta che quasi ancora imberbe percorsi con tanta emozione all’epoca, volando mi costa oggi poche decine di Euro, invece delle centinaia necessarie per il biglietto ferroviario. E anche se il treno, grazie al progresso tecnologico, ormai impiega solamente sedici ore per arrivare a Londra, più che dimezzando quindi il tempo di percorrenza di una volta, mai più riuscirà a essere rapido e diretto come l’aeroplano, senza tener conto dell’appeal dal quale tutto ciò che a che fare con il volo è circonfuso.
L’aggressiva politica delle compagnie Low-Cost ha fatto precipitare i prezzi (fortunatamente solo quelli), ingaggiando una battaglia all’ultimo sangue con le compagnie di bandiera. Qualcuna di queste è defunta, qualcun’altra è scesa a patti, altre ancora si nascondono dietro anacronistiche barriere protezionistiche dal destino ineluttabilmente segnato.
Comunque mi sfugge come sia possibile far sollevare da terra una cinquantina di tonnellate di metallo, lanciarle quasi alla velocità del suono, bruciare sei tonnellate di kerosene, evitare di sfracellarsi all’arrivo, e farmi pagare solamente il prezzo di una pizza e una birra (piccola). I conti non tornano, i miei intendo; i loro evidentemente tornano benissimo. E’ chiaro come il sole che con questa tariffe è molto più facile spostarsi. Attenzione, ho detto spostarsi, non viaggiare: son due cose diverse. La gente entra in un box di acciaio e vetro, sale su un aeroplano, passa qualche ora contemplando una rivista patinata della compagnia, scende e si ritrova in un altro box di acciaio e vetro: è arrivata. Un tragitto in ascensore rischia di essere più rimarchevole.
Il “viaggio” ha necessità di confrontarsi con lo spazio e con il tempo. Togliere uno di questi due fattori (o entrambi) lo svuota di ogni sostanza, trasformando un’esperienza terrena in un gioco di prestigio meraviglioso ma incomprensibile. E magari è proprio questa magia a buon mercato che attira frotte di passeggeri, la possibilità di avere “tutto e subito” (o almeno prima), di cambiare l’orizzonte senza cambiare sé stessi nemmeno un po’, di scoprire il colpevole senza dover leggere tutto il libro; non è un viaggio, è un privilegio, quello stesso di cui godevano i nobili del Ancien Régime quando attraversavano l’Europa affamata, ben rintanati nelle loro lussuose carrozze.
Ma veramente mi spetta questo privilegio? Non posseggo particolari qualità, sono solamente un tecnico, e neppure dei migliori. Non vengo richiesto con urgenza al capezzale di qualcuno, oppure sulla scena di un disastro. La mia presenza al mondo è ininfluente, se non per i danni che provoco. Di beni e ricchezze neanche a parlarne: è lo stipendio che mi salva dalla miseria. Eppure in aeroplano ci sono andato, anche recentemente, e senza troppi rimorsi.
Quanto amo invece spostarmi in treno, annegare gli occhi nel paesaggio che mi scorre accanto, provando o immaginando sensazioni, scrutando i volti di chi parte e di chi resta, consapevole di una strada tracciata dall’uomo e non dal radar, tenendo il conto (e la memoria) delle fermate, delle città, degli eventi, e misurare il viaggio con la mappa, non coll’orologio.
Ma non sempre posso farlo, non mi è consentito: evidentemente non sono abbastanza ricco.
E’ assurdo che a fronte di una minore velocità di spostamento via ferrovia, di un viaggiare più “popolare” e sicuramente meno asettico, e soprattutto di un impatto ambientale tre volte minore, io invece venga implacabilmente incoraggiato a godere del “privilegio” dell’aeroplano, a forza di sconti, offerte speciali e tariffe ridicole. Dei pusher, ecco cosa sono queste compagnie. Si sono spartite il mercato con le peggiori intenzioni di spolparlo, e noi ci stiamo perché, tutto sommato, ci fa comodo.
Ecco spiegate quelle scie incongrue; niente niente, potrei esserci stato anch’io lassù, a bruciare kerosene. Rimasi a fissarle ancora per un po’ ed esse mi parvero come piste, piste di cocaina di un mondo drogato che ha paura di fermarsi, o anche solamente di rallentare. Non ero curioso di sapere dove stessero andando. Lo sapevo già, e forse anche loro: da nessuna parte, al massimo dal sedile alla toilette.

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3 thoughts on “Siamo alle solite Calimero

  • Sono molto d’accordo, la penso come te e aggiungo, a costo di essere impopolare, che vorrei che il volare tornasse a essere l’esperienza di lusso, e costosa, di un tempo, imponendoci il doveroso rispetto verso un miracolo dell’essere umano: essere riuscito a volare

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