Per chi non sa e per chi fa finta di non sapere

Sono abbastanza certo che alcuni aspetti del mio pensiero possono sembrare stravaganti, a volte persino indecifrabili, comunque mai allineati, e nemmeno sempre plausibili.
Ciò in parte è dovuto a una sorta di disorientamento, la stessa che prova un navigatore che non dispone di stelle e bussola per tracciare una rotta sicura (sempre che esista) nel Mare Oceano.
Il primo segnale di questa incertezza si palesa quando mi viene chiesto chi io sia, ovviamente non le generalità, bensì di quali genti io faccio parte, o come si dice “io sono di…”.
Capirete bene quanto sia difficile spiegare che io sono il figlio di una terra che non esiste, o per meglio dire che forse esisteva un tempo, finché un cataclisma non si portò via tutto lasciando solamente il mito e la memoria, entrambi alquanto inaffidabili.
Abito in un modesto borgo, poco più di una dozzina di case incastrate una accanto all’altra nel poco spazio rubato a una valle che a tratti sembra un canyon in miniatura, in fondo al quale c’è un torrente, mentre sopra incombono rocce e ghiaioni. Le mie finestre guardano quella che fu l’antica Via del Sale, un erto sentiero che secoli addietro consentiva ai popoli dell’entroterra di procacciarsi, più o meno legalmente, quell’elemento vitale.



Tanto per darvi qualche indizio, vi informo che io vivo esattamente sul confine, un confine millenario, quello che separa il Carso dall’Istria, il calcare dall’arenaria, lo scotano dalla ginestra, l’aspro dal dolce, anche se molte sono le invasioni di campo.
Fino a due secoli fa da qui passava anche il confine tra il libero comune di Trieste, poi città asburgica, e la Serenissima, una demarcazione destinata a sparire nel 1797 assieme alla Repubblica di Venezia.
L’Impero d’Austria governò queste terre con soluzioni pragmatiche, si potrebbero dire addirittura ciniche, ma il sistema del bastone e della carota si dimostrò funzionale. In buona sostanza, stabilita e intoccabile la supremazia della corona asburgica alla quale tutti erano subordinati, nessuna etnia periferica doveva imporsi massicciamente sulle altre nelle terre dell’impero, ne sarebbe stata minata la stabilità dello stesso. Le misure andavano dalla migrazione controllata alla cooptazione di individui di particolare valore. Tanto per farvi qualche esempio, il montenegrino Gopcevich diventò un importante armatore, l’albanese Ghega progettò la prima ferrovia di montagna in Europa, l’astronomo Palisa era moravo, il fondatore della RAS, Giannichesi, veniva dall’isola di Zante.
Questo, si potrebbe dire, era il bastone, ovvero “fate quel che volete purché non mini l’integrità dell’Impero”, mentre la carota consisteva in una superiore organizzazione dello stato sociale, un’istruzione garantita e obbligatoria, un sistema ospedaliero pubblico, una legislazione equanime, e, fatto non trascurabile, un livello diffuso di benessere, ovviamente riparametrato ai livelli dell’epoca.
Nonno e bisnonno vestirono la divisa grigia di Cecco Beppe, lo fecero senza remore (anche se il bisnonno, vecchia volpe, si finse pazzo e venne presto rispedito a casa), e, a quanto ne so, nessuno in paese manifestò sentimenti irredentisti. All’epoca, il problema più grosso era portare qualcosa in tavola, e bisognava riuscire a farlo ogni santo giorno. Non era cosa da poco, visto che in Veneto e in Friuli si moriva ancora di fame e di pellagra.
La guerra poi andò come andò, il mondo cambiò, e per più di qualcuno non in meglio. L’economia locale subì un brusco tracollo, ma il peggio doveva ancora arrivare.
Inviperiti per aver dovuto accettare una “vittoria mutilata” (l’Intesa aveva promesso mari e monti al Regno d’Italia, ben sapendo di mentire), i nazionalisti sfogarono i loro bassi istinti contro tutto ciò che non era “italiano”, nomi, usanze, cultura, organizzazioni, aziende, e, come capita sempre con i vermi del loro stampo, se la presero con i più deboli, in questo caso l’etnia slava presente nell’entroterra giuliano e istriano.
Nel 1920 i fascisti triestini presero d’assalto e incendiarono l’Hotel Balkan, sede della Narodni Dom (Casa del Popolo) degli sloveni triestini, un gesto che sanciva l’apertura delle ostilità degli “italiani” contro gli “slavi”, questi ultimi considerati un popolo inferiore da tenere sottomesso, una bella manifestazione di razzismo ben precedente a quelle che avrebbe posto in essere Hitler più di un decennio più tardi. Il regime fascista non mancò certo di zelo nel voler cancellare ogni traccia “impura”, impedendo persino alle persone di esprimersi nella loro madrelingua.
Il 18 settembre 1938, Mussolini proclamò al mondo l’emanazione delle leggi razziali italiane, e indovinate un po’ quale località venne scelta per questo importante annuncio: Trieste.



Come potete constatare in quel filmato, la piazza era gremitissima, l’adunata fu “oceanica”, e, vi prego di credermi, non c’erano solamente triestini ad applaudire, ma anche moltissimi istriani.
Chi ha parlato con qualcuno dei paesani lì arrivati per osannare il Duce mi raccontò dei loro commenti entusiastici al ritorno, della loro esaltazione, della totale adesione a quell’ideologia malsana. Uno arrivò a dire “che omo, che genio, quel no ga una testa, ne ga due” (sic).
Quanto si sarebbero pentiti di aver permesso a quel genio di uscire dalla nera lampada del fascismo!
Scoppiò un’altra guerra, e dopo averle prese in Francia, in Africa e in Grecia, Mussolini pensò bene di accodarsi a Hitler e di attaccare il Regno di Jugoslavia, anzi la Balcania, come amavano definirla i fascisti.
Ennesimo errore.
Se le truppe regolari jugoslave di sfarinarono quasi subito, lo stesso non si può dire delle milizie popolari, le quali non aspettavano altro per regolare vecchi conti in sospeso, dando vita a bande partigiane di diversa estrazione etnica. La maggior parte di queste aveva in odio l’invasore nazifascista, e iniziarono la lotta per la liberazione del loro paese.
I tedeschi e gli italiani conoscevano una sola risposta, la violenza, e non ne lesinarono in quantità ed efferatezza. Celebri le parole del gen. Roatta “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente”, oppure quelle del gen. Robotti “Si ammazza troppo poco!”.
Il mito degli “italiani, brava gente” si era già infranto sulle alture attorno ad Amba Aradam e nelle grotte di Debra Brehan, grazie ai gas della divisione Granatieri di Savoia, ma è in Jugoslavia che diedero il meglio di sé.
In questa mostra fotografica intitolata “A ferro e fuoco” ci sono immagini e spiegazioni dettagliate sui perché e i percome di tali barbarie durante la guerra contro la Jugoslavia. Si tratta di uno studio sicuramente scomodo, sicuramente fonte di disturbo per le nostre placide coscienze, sicuramente sensibile ad attacchi di parte, sinceri e insinceri (di più questi ultimi), sicuramente significativo a prescindere.

Si sa che la violenza chiama altra violenza, e i recenti conflitti locali conseguenti alla dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia hanno mostrato quanta ferocia cova ancora nei Balcani, e come sia facile attizzare le fiamme e utilizzare le masse ignoranti per raggiungere scopi inconfessabili.
Così a pagare per le sopraffazioni e la violenza fascista alla fine furono solamente quelle terre che Venezia e Vienna avevano rese prospere e pacifiche. Riflettete su questo: l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti, ma per sanare i danni di guerra non mi pare che sia stata sacrificata la riviera di Ponente, la costa nord occidentale della Sardegna, la Valle dei Templi in Sicilia, il Tavoliere delle Puglie, le alpi valdostane. Nossignori, niente di tutto ciò è stato alienato.
Si vede che 5000 chilometri quadrati di terra sulla quale vivevano 350.000 poveracci, e qualche migliaio di persone uccise e infoibate senza uno straccio di processo sono stati considerati un prezzo conveniente da pagare per ottenere l’assoluzione plenaria dai peccati fascisti. Forse avranno pesato la scarsa affezione italica dei locali, con la loro nostalgia per i bei tempi della defonta, o anche il rimorso per aver proprio lì compiuto i peggiori delitti, e quindi il desiderio vigliacco di allontanare da sé il frutto della colpa.
Fatto sta che proprio quella sarebbe la mia terra, e con mia non intendo la proprietà, cosa ben effimera e trascurabile, bensì intendo “mia” com’è il sangue che mi scorre nelle vene, com’è  la pelle che mi trattiene, com’è il pensiero che sorge a tormentarmi.
Quella terra non esiste più (se mai è veramente esistita), ma neppure posso dirmi figlio della terra dove mi trovo ora, ancora troppo faziosa e settaria per i miei gusti.
Non ho bandiera che non sia quella del ciliegio in fiore, o del grappolo di refosco, o del mare increspato dalla Bora, e tutto sommato non riesco a scrollarmi di dosso una sorta di risentimento verso ciò che è venduto come “patriottico”. Scrivo in una lingua straniera, questa, imparata a fatica sui banchi di scuola e su centinaia di libri, ma continuo a pensare, parlare, sognare in istroveneto con tutte le sue contaminazioni germaniche e slave, e uso parole destinate all’oblìo.
Si dice che una nazione o un popolo è definito dalla sua lingua. Perfetto, mancandomi la terra, la mia terra, sotto ai piedi, non mi resta che definirmi “nazione”, una nazione itinerante, essendo portatore di antichi valori ormai scomparsi, el copo e la famea, e proprietario di una lingua antica che l’omogenea cultura italiana vuole ridurre a “vernacolo”, come se fosse un parente povero del quale vergognarsi un po’.

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4 thoughts on “Per chi non sa e per chi fa finta di non sapere

    • Ciò che mi addolora è la cecità delle genti che si sono trovate a dover pagare il fio di quella politica scellerata. Moltissimi di coloro che dopo la guerra furono costretti, per motivi vari, a lasciare le loro terre in Istria, abbracciarono poi le vecchie idee nazionaliste e revansciste di quella stessa parte politica che per più di un ventennio aveva soffocato con la violenza ogni deviazione dai principi italofascisti, e che aveva incluso in tali persecuzioni anche quella contro la cultura slava al fine di cancellarne ogni traccia, sfociando infine nella guerra di aggressione del 1941.
      🙁

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