Memo

Memo

Questo è un racconto del racconto di un racconto.
So che, a dirla così, sembra una cosa stupida, però non saprei in che altro modo spiegare come io stia scrivendo una storia che m’è stata narrata da chi non l’ha vissuta in prima persona, ma che è stato testimone della stesura, e poi dell’unica lettura del resoconto di quelle le vicende che riporterò qui. A imbrogliare ancor di più la faccenda concorre il fatto che io non conosco l’autore di quel primo testo e nemmeno i personaggi che lo popolano, perciò mi son dovuto arrangiare col poco che avevo, alcune testimonianze non sempre collimanti e molte pagine di quel misterioso racconto, più un foglio manoscritto che avevo trovato in terra andando al lavoro e che per pura curiosità m’ero portato in ufficio. Proprio quel pezzo di carta sta all’origine di tutto, cioè non di questo racconto, ma del perché lo stia riscrivendo io. Il testo era abbastanza bizzarro, e quella grafia fuori moda aveva un che di misterioso, come se mi trovassi di fronte a un’antica iscrizione esoterica. Il nome dell’autore in calce diceva tutto e non diceva niente, ossia si capiva che quelle righe probabilmente erano state scritte decenni fa, però mancando il cognome non si poteva andar oltre alle mere supposizioni. Così presi l’abitudine di tenermelo sulla scrivania quel manoscritto come una sorta di soprammobile vintage, e ogni tanto gli davo un’occhiata, scorrevo qualche riga e riflettevo sul senso, o il nonsenso delle parole, come si fa con un quadro di arte contemporanea appeso alla parete dell’ufficio.
Un po’ di tempo dopo, saranno stati un paio di mesi, il manoscritto attirò l’attenzione di un mio collaboratore, il quale, pur non sapendo molto dell’origine di quel testo, mi diede due notizie sorprendenti, ovvero che tutta la storia era ben più lunga di un singolo foglio di carta, e poi che se avessi voluto saperne di più sarebbe bastato chiedere a un paio di persone che lavoravano nel mio stesso istituto. Che dire, rimasi spiazzato: quel manoscritto era partito dall’edificio dove stavo, e alla fine s’era deciso a tornare facendosi trovare da me. La straordinarietà della coincidenza mi parve così propizia da obbligarmi a indagare, solo per trovarmi di fronte a un rompicapo composto da ricordi mai troppo precisi e spezzoni di un racconto non sempre lineare, il tutto complicato dal fatto che l’unico in grado di fornirmi una testimonianza di prima mano su quelle vicende se n’era andato. Solo quando ritenni di essere in possesso di abbastanza tessere coerenti le collegai con un filo temporale e mi disposi a riscriverle con l’intento di presentarvele in una forma perlomeno comprensibile, e magari aggiungendo, ma senza tradire, qualche dettaglio di mio per rendere la lettura meno indigesta. E allora eccomi qua, ma fate conto che non sia io a narrare.

Ho voluto scriverla questa storia prima che i ricordi si confondano, perché molti anni sono trascorsi dai fatti che mi riguardano, e ancor di più nel passato affondano le vicende che mi sono state raccontate, fatti che io tenterò qui di riportare col massimo della fedeltà concessa dalla memoria.
Tutta la vicenda vede il suo inizio a causa della mia stupidità, perché qualche volta siamo proprio stupidi; ci dicono una cosa e noi non ascoltiamo, ce la ripetono e noi facciamo finta di non aver sentito, poi paghiamo cinquantamila lire per sentirla uscire dalla bocca di uno col camice bianco addosso, e allora obbediamo come cagnolini.
Ricordo ancora bene lo sguardo dubbioso del vecchio medico quando mi fissò da sopra in suoi occhiali a mezzaluna da presbite, sembrava che stesse osservando una radiografia poco definita, poi si spinse indietro sullo schienale della poltrona facendola scricchiolare un po’, piegò la bocca in un sorriso stanco – non ne fui per niente rassicurato – e infine emise il suo verdetto.
– Senta, dai sintomi che m’ha descritto dovrei richiedere un esame endoscopico, una gastroscopia… ma…
– Ma?
– Vede, è un bel fastidio, dovrebbe saperlo, anche se talvolta è risolutiva.
Rimasi in silenzio. Non sapevo che altro aggiungere al suo discorso, d’altronde il medico era lui.
Stavo male da troppo tempo, e per troppo tempo m’ero preso in giro dicendomi che era solamente un episodio, oppure che era la coda di qualcosa che stava già passando, ma dopo una notte in bianco, trascorsa per intero quasi piegato in due, m’ero deciso di smetterla con quel comportamento puerile.
Dopo qualche attimo di silenzio imbarazzato il medico riprese a parlare, però con un tono diverso, più bonario, e anzi sollevò il busto dallo schienale della poltrona per avvicinare il suo volto al mio, quasi volesse rivelarmi un segreto inconfessabile.
– Senta, da quello che m’ha raccontato non ho potuto fare a meno di notare che lei ha una vita, come dire, perturbata: molto lavoro, molto stress, nessun orario, poca attività fisica, insomma il campionario completo. Lei è ancora abbastanza giovane, però i problemi potrebbero aggravarsi con l’età.
– Ma di che campionario sta parlando, scusi?
– Di tutto ciò che può portare danno al suo organismo. Per sua fortuna almeno non è un fumatore.
– Mai stato.
– Ottimo. Però è chiaro, qui un problema c’è…
Giunse le mani davanti alle labbra e fece una pausa, lunga, drammatica, tenendomi sospeso come fossi una cavia da laboratorio appesa per la coda. Porca miseria, anche un attore mi doveva capitare.
Avrei voluto dirgli che lo stavo pagando perché mi curasse e non per fargli un provino cinematografico, ma ero in suo potere e mi costrinsi a restare zitto, quasi imbarazzato per quei secondi di silenzio rotto solamente dai soliti misteriosi rumori ovattati che le pareti d’un condominio non smettono mai di trasmettere. Lo fissai cercando di indovinare cosa gli stesse passando per la testa, poi buttai uno sguardo alle pareti dello studio, un’occhiata distratta, una di quelle che si dedicano alle sale d’attesa, e non potei fare a meno di notare i titoli e gli altisonanti attestati appesi alle sua spalle, quasi fossero degli antichi blasoni e patenti di nobiltà. Confesso che lì per lì un dubbio atroce m’aveva attraversato la mente, ma ora quelle pergamene ingiallite m’avevano confortato sulle competenze di chi avevo davanti.
Un suo sospiro chiuse finalmente quella pausa penosa, e il medico si decise a parlare.
– Facciamo così. Io ora le prescrivo un blando antiacido, ma lei mi promette di prendersi subito un periodo, diciamo di un paio di settimane, di relax.
– Eh, magari potessi…
– Deve.
– Come sarebbe a dire che devo?
– Beh, diciamo così: glielo consiglio, caldamente.
Il mio sguardo dovette tradire palesemente la mia incredulità. Tornai di nuovo a guardare la parete tappezzata di riconoscimenti medici, attestati, e roba del genere. Magari erano fasulli, o comprati, ma le lodi sul conto di quel luminare si sprecavano, e così mi decisi a soffocare i miei dubbi. Suppongo però che in quel frangente non fui capace di nascondere il mio sconcerto, poiché il medico si ritenne in dovere di darmi alcune spiegazioni.
Mi raccontò degli effetti dello stress psicologico sul funzionamento di tutto l’organismo, dei vantaggi di un’alimentazione sana e regolata, e di come anche una piccola pausa potesse rivelarsi salutare. Non mi convinse del tutto, ma, come ho già detto prima, il dottore era lui.
– Non le consiglio il mare, la spiaggia. C’è troppa gente, troppo movimento, e poi, a maggio… è ancora un po’ freddo per fare il bagno. Molto meglio la montagna, sui mille metri. Lei è ancora giovane, non ha nemmeno quarant’anni, perciò le gambe dovrebbe averle ancora buone, e di sicuro male non le farà…, oddio, a meno che non mi precipiti in un burrone.
Non faceva ridere.
– E poi? – chiesi, ancora non del tutto convinto.
– E poi vedremo. Se sta ancora male procederemo con quell’esame, vada pure a prenotarlo, non c’è problema, la lista d’attesa è di un mesetto almeno. Ma se poi lei mi sta bene annulliamo la prenotazione e sarà meglio per tutti, per lei che si risparmierà quell’intrusione nel suo esofago, e per l’INAM che risparmierà dei soldi.
Messa così la faccenda sembrava proprio che non avessi scelta, però non potevo dirmi soddisfatto di quell’inatteso sviluppo. Ero entrato nel suo studio aspettandomi una sentenza, sperabilmente favorevole, e ne uscivo con un aleatorio “vedremo”. Comunque promisi che avrei seguito la sua singolare prescrizione, pagai la parcella e, dopo i saluti e i ringraziamenti di prammatica, uscii dallo studio medico.
Il mattino dopo misi al corrente della situazione i soci dello studio, i quali ebbero una reazione inaspettata. Invece di mostrarsi contrariati per la mia prossima indisponibilità, ossia preoccupati dalle complicazioni che quella avrebbe inevitabilmente comportato, si mostrarono estremamente comprensivi, direi quasi sollevati. Sospettai allora che lo star male m’avesse reso veramente insopportabile.
Ognuno di loro decantò le virtù di amene vallate alpine, posti che, a loro dire, erano il massimo per una vacanza rilassante, località che per me erano lontane e arcane quanto i templi birmani. Scelsi praticamente a caso. Ricordo che, dopo quell’inusuale prescrizione, il medico aveva aggiunto che sarebbe stato meglio che ci fossi andato da solo in montagna, e quando gli confermai che non ero né sposato e né fidanzato egli aveva sorriso apertamente aggiungendo un sibillino – Ci pensi quando torna…
Dato che non ero esattamente un “montanaro”, in quanto più in là di una passeggiata in collina non ero mai arrivato, gli amici mi prestarono praticamente tutta l’attrezzatura necessaria, e forse anche qualcosina in più. Quando, dopo un paio d’ore d’automobile, parcheggiai davanti all’ingresso dell’unico albergo di quel paesino sperduto e iniziai a scaricare i bagagli, il proprietario, un omone di una certa età che sfoggiava un paio di baffoni a manubrio bianchissimi, mi venne subito incontro scusandosi di aver riservato una camera sola, supponendo dal numero di valigie che fossi giunto in compagnia di altre persone. Chiarito che fu il banale equivoco, venni accompagnato fin su nella mia camera, una stanza al primo piano che trovai subito angusta e fredda nonostante la sovrabbondanza di chiaro legno d’abete. Chiusa la porta, mi trovai avvolto da una vaghezza di odori che allora non sapevo ancora distinguere, resina e olio di lino, muffa e cenere, naftalina e lana grezza, incerto se farmeli piacere o meno. Andai alla parete opposta e aprii la finestra, l’unica, per cambiare l’aria di quella stanza rimasta chiusa per troppo tempo e mi soffermai a osservare un tranquillo cortile interno, nel quale era stivata con maniacale precisione la legna da ardere. Una volta sistemato il contenuto delle valige nel modesto armadio a due ante e nel canterano, mi buttai su un letto piccolo e alto covando cupi presentimenti di noia e disagio.
Al mattino del giorno successivo, sul tavolo dove campeggiava il resto di una robusta prima colazione che mai sarei riuscito a finire, feci un po’ di spazio tra la tazza del caffè e un panetto di burro, giusto per consultare una mappa, per cercare di capire dove diavolo mi trovassi.
Dopo un paio di minuti, un “ehm, ehm” appena borbottato mi fece sollevare lo sguardo verso il centro della sala. C’era solamente il mio albergatore, florido e rubizzo, al momento impicciato da vassoi e stoviglie, quindi facente funzioni anche di cameriere. L’eccesso costante di carminio nel suo incarnato mi fece sospettare una particolare arrendevolezza verso i distillati, non rara, si dice, da quelle parti.
Il tipo s’avvicinò con fare tra il bonario e il saccente.
– Non vorrà mica fidarsi di quelle carte vero?
– Perché, cos’hanno di sbagliato?
– Tutto. Aspetti un attimo.
Senza darmi il tempo di rispondere si girò e tornò in cucina, per uscirne dopo qualche minuto, non da solo, ma con una bottiglia e due bicchierini. Posò questi ultimi sul lucido piano di abete e ci versò dentro, solamente fino all’orlo perché di più non ci stava, del liquido dai riflessi verdognoli, e quindi, senza chiedere permesso (in fin dei conti ero a casa sua), si sedette di fronte a me, con scarsissima intenzione di licenziare la bottiglia. I miei sospetti alcolici apparivano, di minuto in minuto abbastanza fondati.
– Alla salute! – e, rovesciando la testa all’indietro, buttò giù d’un fiato il contenuto del suo bicchiere.
Io, alle nove del mattino, non mi mi sentivo altrettanto temerario, e praticamente mi bagnai solamente le labbra e la lingua cercando di temporeggiare in attesa di una via di scampo.
Presumendo che ormai fossimo diventati fratelli di bevute, mi confidò che le mappe che avevo in mano erano inaffidabili, bugiarde, peggio che inutili: pe-ri-co-lo-se.
– Due anni fa è venuto giù di tutto: acqua, grandine, tempesta. Il monte è diverso adesso.
Venni a sapere che i sentieri segnati non esistevano più, sepolti da frane, coperti da alberi sradicati, scavati da torrenti in piena; in certe zone era rischioso avventurarsi perché il terreno si sfarinava sotto i piedi come ricotta vecchia; in altre capitava di camminare ore e ore solamente per doversi fermare sul ciglio di un burrone inaffrontabile. Ci sarebbe voluta almeno una decina d’anni prima che il tutto si stabilizzasse, ma io non avevo nessunissima intenzione di passare un decennio in quell’eremo.
– E allora io, come faccio?
– Le serve una guida.
– Cioè lei?
Cominciai a sospettare il classico imbroglio per infinocchiare l’allocco di passaggio.
– No, no, scherza, io c’ho l’albergo da mandare avanti. Vorrei, ma non ho tempo.
– Chi allora?
Ci pensò su per un po’, e anche qualcosina in più. O le guide erano troppe e la scelta era improba, oppure troppo poche e perciò tutte impegnate, oppure ancora era il distillato che stava esercitando egregiamente le sue funzioni.
– Vada dal matto.
– Eh?
– Ma sì, il matto è in gamba, conosce i monti qua attorno come le sue tasche.
Benissimo, mi venne di pensare, dalla fregatura siamo passati all’omicidio, scaricando ovviamente la colpa sul matto del paese, ovviamente non punibile causa infermità mentale. Il ridente villaggio montano stava prendendo i contorni di uno scenario da film dell’orrore.
– Il matto. Ma… mi sta prendendo in giro?
– No, è che noi lo chiamiamo così, da sempre. Il suo nome è Mario, o Manlio, non ricordo, chieda al parroco, forse lui… ma è innocuo creda, solamente un po’, come dite voi di città… ah sì… eccentrico.
– Altre guide non ce ne sono?
– Mi spiace, una è fuori, tutta la settimana con una comitiva, una è dentro, ubriachezza molesta con danneggiamenti…
Mal comune a quanto pare, pensai.
– … e una è così e così. –
– Così e così come?
– Ha ottant’anni, e ultimamente si sente le gambe un po’ deboli.
– Va bene, ho capito, allora vada per il matto. Ha il suo telefono, o l’indirizzo?
Poco mancò che l’albergatore si strozzasse dalle risate. Poi, asciugandosi le lacrime, si scusò e, tanto per ridarsi un contegno, asciugò ancora un po’ anche l’interno della bottiglia.
– Il telefono! Ce ne sono dieci in tutto il paese! Ah, ah, ah, e uno dovrebbe averlo il matto? E che se ne fa, chiama forse gli stambecchi per sapere come stanno? Ah, ah, ah, ah.
Mi stavo convincendo che forse ero capitato in una specie di esperimento terapeutico, un posto dove i pazzi girano liberi per le strade. Dovevo averla sentita da qualche parte l’idea balzana che alcuni psichiatri avevano proposto. Forse era già successo e nessuno ne sapeva ancora niente. Li avevano messi qui, in segreto, liberi ma isolati, in questo manicomio all’aperto. I medici sicuramente li stavano osservando di nascosto e valutavano le loro reazioni col mondo normale, utilizzando come cavie i malcapitati che passavano in paese.
– Qua non ci sono indirizzi. C’è la piazza, la villa, il campo nuovo, roba del genere, e poi ci si conosce tutti. Cosa vuole che mi serva un pezzo di carta che mi dica dove sto. ‘Ché, forse già non lo so da me?
– Ma allora, come la trovo questa persona?
– Vada dritto fino alla chiesa, giri a destra per il sentiero in salita e arriverà alla casa del matto.
– Ho capito… ma com’è, come la riconosco…
– La riconoscerà, la riconoscerà, si fidi. Mi perdoni, ma ora devo proprio andare, la cucina aspetta me. Buona giornata!
Mi lasciò così, col mio bicchierino di liquore alle erbe ancora pieno e con una selva di punti interrogativi. Dissi tra me e me – Beh, pensai, togliamoci il pensiero e andiamo a cercare questo matto.
Per sottolineare la mia decisione e mostrarmi all’altezza della situazione mi venne spontaneo di imitare il mio ospite, ingollai d’un fiato quel pallido liquore, ricordandomi all’istante di una cosa importantissima.
Un promemoria è quasi sempre qualcosa di seccante, come una persona pignola, una pittima che ci ricorda debiti, impegni e incombenze con pedanteria e petulanza. Ecco, dire che quel promemoria fu per me un fastidio equivarrebbe a usare un ingiusto eufemismo. Una stilettata allo stomaco mi fece risentire, come su un nastro registrato, le esatte parole del mio medico: “e mi raccomando, eviti tutti i superalcolici”.
– Forte eh?
Mi girai verso la cucina per vedere chi m’aveva rivolto quella domanda. Era un donnone, un incrocio tra Giunone e Maciste con le rispettive peculiarità mescolate in ordine sparso. Giudicai che fosse la moglie dell’albergatore.
– S… sì, solo che…
– Non si preoccupi, sono erbe che raccolgo io nel bosco. È tutta roba buona sa?
– Ah ecco… volevo ben dire…
– È ottimo anche come digestivo.
– Grazie signora… lo terrò a mente, questo è certo.
Era un ottimo digestivo di sicuro, specialmente se uno vuole smaltire anche le sue stesse budella. Feci voto all’istante che se fossi sopravvissuto a quell’aggressione chimica avrei bevuto per il resto della vita solamente acqua di fonte.
Dopo un lunghissimo quarto d’ora passato a boccheggiare e a testare il funzionamento di un modellino in scala ridotta dell’Inferno giusto sotto lo sterno, riuscii ad alzarmi e a risalire in camera, sempre un po’ ingobbito comunque. Ripreso il controllo di tutte le mie funzioni motorie e cerebrali, me ne uscii dall’albergo per andare alla ricerca della casa del matto.
Poca gente in giro, qualche vecchio e qualche moccioso. A quell’ora chi doveva e chi poteva era sicuramente già preso dalle sue occupazioni, quali potessero essere in quel villaggio erano per me un mistero. Mi colpì il silenzio, ben diverso da quello nostro che è costruito a forza di muri spessi e doppie finestre. Era punteggiato da rumori occasionali che in più lo sottolineavano, un craak craak lontano, un muggito, un richiamo, un cane che abbaia. Anche la gente che incontravo per via era silenziosa. Però salutava.
Giunto sul rustico sagrato pavimentato con ciottoli di torrente trovai quasi immediatamente il viottolo in salita. m’avventurai su per quel disagevole percorso, cercando di schivare le evidenti tracce del passaggio di una mandria di vacche.
Le case erano un po’ tutte uguali, basamento di pietra bianca o grigia, primo piano di legno, a volte nero come la pece e a volte ingrigito. Mi capitò di immaginarle come se fossero cose vive, destinate, come noi, a incanutire. Ogni tanto, da qualche balcone ricavato sotto le ripide falde del tetto strabordavano colate di gerani, rossi da far male agli occhi.
Come dovrebbe essere la casa di un matto? Col tetto capovolto? Senza finestre? Dipinta di viola? Rotonda?
Mentre mi stavo ponendo tali interrogativi giunsi finalmente a destinazione: la casa del matto. L’albergatore aveva ragione: era inconfondibile.
Niente forme strane, nessun eccesso, eppure non banale, ma neppure clamorosa: un solo piano, valutai di una cinquantina di metri quadrati, tutta in legno scurissimo, dalle pareti al tetto, perfettamente abitabile, e indubbiamente abitata. Lo si capiva dai brandelli di musica che scappavano da una finestra semiaperta. In quel paese silenzioso, popolato da figure loquaci quanto un pesce, quelle note facevano l’effetto d’un petardo lanciato in una biblioteca.
M’avvicinai alla finestra con la scortese intenzione di sbirciare all’interno. Anche quell’ordinario manufatto, un’inglesina di abete con piccoli vetri di colori diversi, una sorta di variopinta scacchiera, giustificò l’etichetta che gli avevano affibbiato: eccentrico.
Non si vedeva un accidente, troppa luce fuori, troppa ombra all’interno, perciò m’approssimai alla porta, bussai e attesi. Niente. Riprovai, stavolta con più decisione. Niente. Eppure qualcuno c’era. Oltre alla melodia ovattata che si spandeva dalla finestra e che trafilava dalle ampie fessure tra l’anta e la porta, si udivano dei tonfi, a volte sordi, a volte più secchi.
Non c’era altro da fare; se non volevo passare lì la giornata era indispensabile diventare un po’ invadenti. Impugnai la maniglia e testai la serratura: era libera. Scostai la porta di quel tanto che serviva per far passare la mia voce.
– Buongiorno, c’è nessuno?
Musica, tonfi, nessuna risposta.
– BUONGIORNO, è permesso?
Identico risultato. Allora scostai di più la porta e buttai dentro uno sguardo. Un fiotto di luce sgusciò all’interno e, rimbalzando sulle pareti scure, delineò i contorni della stanza. Scorsi una credenza bianca che fu moderna negli anni ’30, un tavolino, qualche sedia spaiata, e carta, tanta carta, fogli e fogli impilati, sparsi sul pavimento, ammonticchiati in un angolo, posati sul tavolo, puntati sulle pareti e giusto accanto alla porta. Mi capitò di osservare meglio quelli più vicini a me e scoprii che erano stati riempiti con una grafia precisa e minuta. Chi c’aveva perso del tempo su quei fogli non s’era sicuramente fermato alla quinta elementare…
La musica e i misteriosi rumori provenivano da una stanza adiacente, e allora, spinto più dalla curiosità che dall’esigenza, m’arrischiai a entrare, accostando quindi la porta alle mie spalle.
Inclinandomi di lato fino quasi a perdere l’equilibrio feci capolino sul vano di là. Non so se fu maggiore la sorpresa o l’incredulità a ipnotizzarmi, fatto sta che non riuscivo a distogliere lo sguardo da ciò che, da intruso, stavo osservando.
Un tipo sulla sessantina, barba e capelli sale e pepe, con addosso una rozza camicia marrone a quadri e dei pantaloni al ginocchio, si stava preparando uno spuntino. Ma dovevate vedere come…
Un fonografo che stava fuori dalla mia visuale diffondeva nell’ambiente uno swing ben ritmato, e il tipo lo seguiva con passetti e contorcimenti vari, continuando comunque ad armeggiare con la cucina a legna e le stoviglie. Adesso prende un uovo dal cesto; spazzole sul rullante, lo fa volteggiare e lo riprende; colpo sul crash, piroetta e spezza in due il guscio; il charleston e il contrabbasso si preparano per l’attacco, palleggia il tuorlo da un semiguscio all’altro intanto che fa colare l’albume; tataaa il rosso cade in padella proprio alla prima nota degli ottoni. E così avanti, con la farina, col sale, col… mi vede.
– Salve! Ha fame?
– Ehm, scusi… io avevo bussato. Era aperto, e così…
– Certo che era aperto, sennò come si potrebbe entrare?
– Io allora passerei più tardi…
– E perché, le piace mangiare freddo?
– No, è che non vorrei disturbare.
– Mondo cane, se mi disturbava la cacciavo a pedate. Prenda una sedia e si metta comodo!
– Beh, in questo caso… grazie.
– Non ringrazi me, ma la gallina che s’è rotta il culo per darci queste meravigliose uova. Ah, ma tanto quella fa sempre la sostenuta, non rivolge la parola a nessuno, neanche a me.
Cominciavo a inquadrare il tipo, era un tantino più che eccentrico, diciamo che virava verso il folle, ma sembrava innocuo, quasi divertente.
– Un bicchiere di vino?
– No, no, per carità…
– Ah, bravo, anch’io bevo solamente acqua. Meglio per la salute, e meglio per vederci chiaro, perché se non ci vedi non ci ragioni, non so se mi sono spiegato.
– Sicuro, e come no.
Il profumo che proveniva dalla rustica cucina era comunque abbastanza invitante, perciò non mi feci pregare e restai a mangiare, in cucina, uova e pancetta, a un’ora che per me era sempre stata “pausa caffè”. Terminata quella sostanziosa merenda tornammo nella stanza accanto all’ingresso e, sgomberato un po’ il ripiano del tavolo da quei misteriosi fogli di carta, fu il turno di qualche giro di carte, a scopa, senza posta, solamente per la gloria, e meno male, altrimenti m’avrebbe levato anche le mutande. Quindi uscimmo e mi fece vedere il suo orto, cioè un tormentato fazzoletto di terra che lui diceva essere un orto, ma che a me pareva una giungla di piante diverse che si scannavano per un po’ di sole; mi presentò poi alle galline, e quelle, proprio come lui m’aveva anticipato, sdegnarono ogni saluto. Disse che c’era anche un gatto da qualche parte, peccato che questa “qualche parte” comprendesse grossomodo un paio di chilometri quadrati.
Parlava, parlava, e intanto faceva qualcosa: legava meglio un rampicante, tirava su dal tappeto verde un paio di ravanelli, puliva la base del pollaio, sistemava in quattro e quattr’otto una tavola della parete che s’era allentata. Intanto che ero lì spaccò un bel po’ di ciocchi di legno, pulì delle verdure e dei funghi per una zuppa saporita, fece un buca e ci seppellì gli scarti di cucina, prese una casetta in miniatura e si dilettò a intagliarne alcune decorazioni, – per gli uccellini – mi disse, ci metteva dentro del cibo durante la brutta stagione. Era un vero San Francesco.
La sua energia pareva inesauribile, e fu solamente quando il sole stava ormai per tramontare che si decise a dare un po’ di tregua alle sue mani.
– Beh, s’è fatto tardi, e io sto ancora qui a farle perdere tempo.
– No, ma quando mai…
– Mi scusi, ma noi qua siamo gente semplice, non ci rendiamo conto, siamo, come dire, distratti.
– Ma le pare, non lo dica neanche per scherzo, sono io che dovrei scusarmi con lei. Sono capitato qui, all’improvviso, mentre lei…
– Beh, allora m’ha tolto un pensiero. Adesso devo rientrare. Buonasera.
– Buonasera anche a lei.
Mi girai sperando di ritrovare la strada per il mio albergo. M’avevano avvisato che in montagna, buio significa veramente buio, e che, a meno che non ci sia la luna, non ci si vede a un passo.
Appunto un passo avevo giusto compiuto quando mi girai di scatto.
– Un momento!
– Sì? Ha dimenticato qualcosa?
– Sì! il motivo della mia visita!
– Un motivo? E sarebbe?
Glielo spiegai per sommi capi.
Durante la mia frettolosa esposizione il vecchio non disse nulla; ascoltava e mi fissava. Cominciai a temere che non comprendesse o che trovasse assurda la mia richiesta. Io stesso trovavo ridicole le mie parole. M’azzittii in attesa della sua risposta e dovetti penare per almeno una decina di secondi.
– Sta bene.
– Sta bene?
– Sì, le farò da guida…
– Ah, benissimo.
– A un patto.
– Come scusi?
– Si va dove voglio io.
– Ma io non so se… non ho pratica… non vorrei… dei rischi inutili…
– Balle, la vita è tutto un rischio. Comunque non tema, alla mia età si ha l’esperienza per riconoscere i limiti, i propri per rammaricarsi, quelli degli altri per rispettarli.
Come assicurazione doveva bastarmi.
C’era ancora un aspetto da chiarire e aspettavo che l’accennasse lui, ma il tipo restava muto a fissarmi, come fossi uno spettacolo curioso. Toccò quindi a me approcciare il discorso.
– Ehm, per questo lavoro quanto avrebbe pensato di chiedermi?
– Eh?
– In parole povere, quanto vuole?
– Per cosa?
– Per accompagnarmi, cribbio!
– Dovrei?
– Suppongo di sì, certamente.
– E perché?
– Ma, ma, buon uomo, le mi farà da guida, è un lavoro, e come tale va retribuito.
– Sta scherzando…
– Le assicuro di no.
– Allora mi stia a sentire. Io andrò dove mi pare, farò quello che mi pare, e lei m’accompagnerà, come compagno di viaggio diciamo. E per questo dovrebbe pagarmi? Mi sembra una fesseria bella e buona…
– Insisto. A mio modo di vedere sono tenuto a pagarla.
– Sta bene. Lei è proprio un bel testardo, e non so se andremo d’accordo.
– Dica allora.
– Domani, dopodomani, quando le va, passi all’emporio giù in paese, e se a loro risulta che ho qualche debito mi faccia la cortesia di saldarlo. A me i soldi non servono.
Da quanto avevo visto quel giorno giudicai che il vecchio fosse abbastanza autosufficiente, e che in quel negozietto dovevano vederlo raramente, e di sicuro non per rifornirlo di generi di lusso, roba che del resto non tenevano. Per contro poteva trattarsi di un conto in sospeso lungo di anni, e chi lo sa.
Decisi di correre il rischio. Come aveva detto il vecchio, la vita è tutta un rischio, no? Accettai.
– Per me va bene, allora faremo come vuole lei, salderò il conto.
– Ottimo, allora ci vediamo domani, sul presto.
– Sì… ma dove… qui?
– No, in paese.
– E dove?
– Ma in paese! È forse anche sordo?
– No, è che solamente in paese è un po’ generico…
– Non siamo mica in città. Di qua o di là, prima o poi ci incontreremo, non le pare signor… signor?
– Walter Po…
– Walter basta per me, e poi da adesso ci diamo del tu, perché quando vado a zonzo preferisco la compagnia di un amico, e non di un forestiero.
– Oh, per me va benissimo. E lei… volevo dire, tu come…
– O bella questa! Io sono il matto, non lo sapevi?
E con quella risposta nelle orecchie mi toccò di tornare all’albergo.
Per fortuna c’era in cielo ancora un riflesso di luce del tramonto, giusto quella che serviva per restare sul sentiero evitando di ruzzolare giù dal pendio, oppure di centrare qualche abete.
Mi sentivo i piedi pesanti, ma non era stanchezza, era ciò che avevo accuratamente schivato all’andata e che ora m’accorgevo di prendere in pieno ogniqualvolta sentivo il passo affondare in qualcosa di morbido. Anche il rumore era inconfondibile. Prima di entrare in albergo mi sarei dovuto pulire le scarpe ben bene…
Il mattino seguente, dopo una prima colazione molto calorica, m’avventurai per le stradine del villaggio alla ricerca del matto, facendomi guidare anche un po’ dai suoni, secchi e isolati, e un po’ dagli odori, muschiati e penetranti, comunque tutti sconosciuti. Calcolai che saranno state poco più di un centinaio di case, ragion per cui ero abbastanza ottimista.
Le mie potenzialità di escursionista si palesarono immediatamente come molto scarse in quanto riuscii ben presto a perdermi. Nonostante cercassi di tenere conto delle svolte finivo sempre tra i campi, oppure in quel vicolo cieco tra gli orti o le stalle. Richiamato dai rintocchi di una campana finalmente scorsi la punta del campanile e, al pari degli antichi navigatori, lo utilizzai come la stella polare, una rotta verso la salvezza.
E giusto dietro la chiesa stava l’obiettivo della mia esplorazione, solamente che al momento era molto impegnato con un pallone e una torma di ragazzini.
– Passa, passaaaa.
– Dai, tira!
– Gooool!
– Noooo, era fuori, era palo!
Dopo qualche discussione trovarono un accordo e ripresero a rincorrersi in quella bolgia che nelle intenzioni doveva dare a partecipanti e spettatori l’idea di una partita di calcio.
– Passaaaaa.
– È fallo!
– Rigore!
– Noooo, non vale!
– Buongiorno, era ora!
S’era finalmente accorto di me. Salutò la ciurma di monelli e mi venne incontro ancora ansante. Notai che era scalzo. Notò che avevo notato.
– Non pretenderai che giochi a calcio con gli scarponi, vero?
– Beh… – convenni – effettivamente sarebbe poco sportivo.
– Li ho lasciati dal Bomba… lui ha i cavalli.
Non riuscivo a collegare i equini con le calzature, e suppongo di aver fatto una faccia col punto di domanda in fronte perché il matto si mise a ridere.
– Ma sì, i cavalli, per il grasso no? Il grasso di cavallo è il migliore.
– Ah…
– Perché, tu cosa usi per ingrassare gli scarponi?
– Ma veramente, non saprei, il mio amico ha detto che ci pensava lui, con uno spray…
– Bah, uno spray, roba da donne! Poi non venirti a lamentare se ti trovi i piedi a mollo.
Guardai il cielo, era abbastanza sgombro di nubi e nulla pareva presagire l’avvento d’un acquazzone. M’arrischiai a contraddirlo.
– Però non dovrebbe piovere…
– Però dovremo attraversare dei torrenti.
– Ah…
– Già!
Uno a zero per lui. Confidai comunque nelle meraviglie della scienza e della tecnica vantate dal mio amico e pensai che, male che vada, mi sarei buscato un raffreddore. Probabilmente non sarei morto.
Risolti che furono gli impegni calzaturieri, il matto inforcò un piccolo zaino di tela, si guardò un po’ in giro e finalmente si decise.
– Sul Dente, andiamo sul Dente.
– Che dente scusi… scusa? Non c’è sulla carta.
– La carta? Hai portato la carta? Bene, bene… ci potrebbe servire.
– Ah sì?
– Sì, per accendere il fuoco o per pulirsi… lasciamo perdere.
– Non capisco…
– Il Dente! Non guardare quegli scarabocchi e alza la testa, non lo vedi?
In effetti, a una distanza che non riuscivo a valutare, ma che consideravo comunque incolmabile, scorgevo nella direzione che lui mi stava indicando una solitaria altura che s’alzava dalla valle, le pareti lisce, proprio come un gigantesco molare che spunta da una gengiva verde.
– Lo vedo, ma è lontanissimo, e poi non so se sono capace di arrampicarmi su quelle pareti.
– Se non ci provi non lo saprai mai.
Detto ciò si girò è si mise in cammino lungo un sentiero che solamente i suoi occhi riconoscevano. I craak craak delle cornacchie avevano un che di irridente. Dopo un po’ mi voltai indietro e vidi il paese, già lontanissimo, seminascosto da un’abetaia che avevamo appena attraversato. Pensai che non avrei più rivisto quella cameretta fredda, odorosa di naftalina e resina, e non avrei più subito le rumorose risate del carminio albergatore, né le pozioni infiammabili della di lui consorte. Sarei precipitato, oppure disperso, assalito da un orso, morso da una vipera, l’ennesima vittima della montagna. Tra un paio di settimane, non vedendomi tornare, parenti e amici si sarebbero preoccupati, m’avrebbero cercato, forse trovato, pianto, e dimenticato.
La mia guida se ne fregava delle mie angosce; camminava spedito canticchiando qualcosa di incomprensibile; ogni tanto faceva una deviazione per osservare qualcosa, annusarla, coglierla, rimirarla, talvolta mangiarla, e poi ripartiva come un razzo.
– Scusa, non c’è bisogno di correre!
– E chi corre? Dai che ci siamo!
A me invece pareva di camminare su un nastro trasportatore, sgambettando da ore senza spostarmi di un millimetro. Cominciavo a sentirmi come quegli scoiattoli in gabbia che corrono facendo ruotare un cilindro sotto le loro zampette frenetiche. Eppure il paesaggio attorno a noi cambiava smentendo i miei sospetti, ma la montagna restava sempre distante, come se, perfidamente, s’allontanasse di soppiatto, un passo in avanti noi, un passo indietro lei.
Il sole era già abbastanza alto quando finalmente arrivammo alle prime rocce, e dopo una sosta che mi parve fin troppo breve attaccammo a salire.
Il matto, alla faccia dei suoi sessant’anni, andava su come un gatto, leggero; manco un sassolino spostava nel salire; io invece arrancavo, scavavo, scivolavo, facevo il doppio della fatica per metà della strada che faceva lui. Ciò che mi teneva in piedi non era la resistenza fisica, bensì la testardaggine: in fondo lui era un vecchietto, e io con vent’anni di meno nelle gambe non sarei rimasto indietro, a costo di scoppiare.
Man mano che salivo la mia realtà diveniva sempre più circoscritta: fiatone, scalino, un passo, appiglio, un passo, sbuffo, tintinnio dello zaino, scalino, pietra, un passo, sete, un passo, fiatone, piede in fallo, rumore della pietra che ruzzola in basso, maledizione, appiglio, un passo, sbuffo, goccia di sudore, sulla fronte, nell’occhio, brucia, un passo…
A un tratto m’accorsi che ero tutto ingobbito e che stavo praticamente gattonando. La superficie terrestre era ritornata orizzontale; finalmente avevamo raggiunto il tetto di quel malefico dente. Per prima cosa guardai il matto, indeciso se strozzarlo o se precipitarlo dabbasso, poi vidi qualcosa alle sue spalle. D’incanto fatica, sudore, affanno e caviglie doloranti uscirono dalla mia sfera di percezioni.
Davanti al mio sguardo si stendeva un altopiano leggermente ondulato, totalmente coperto da un tappeto dalle varie sfumature di verde. Non una casa o un picco interrompevano la morbidezza dei suoi contorni, con l’eccezione di qualche abete solitario risparmiato dalla folgore. E che pace: niente cornacchie, niente campanacci, solamente qualche pigolio portato dal vento, e il rumore dell’aria nelle orecchie.
– Vedi? Le vacche qua non ci vengono, è impossibile portarle fin quassù.
– Vedo, e allora?
– E allora qua ci sono ancora tutte le erbe, e i fiori.
Di erbe e fiori ne avevo visti a iosa pure a valle, ma evidentemente il mio spirito di osservazione lasciava alquanto a desiderare. Il matto comprese al volo la mia ignoranza in materia e si incaricò di propinarmi una rustica lezione di botanica.
– Guarda che colori questa genziana, e che profumo… niente a che vedere con quelle di giù.
Avvicinai il naso a quei piccoli calici blu e riconobbi con terrore l’odore della pozione alcolica che m’aveva quasi perforato lo stomaco. Però era buono.
– E guarda che belle queste soldanelle.
Effettivamente quei ciuffetti di fiori, quelle frangette viola, avevano un che di simpatico, quasi fossero state disegnate per un cartone animato.
– Se ti graffi o ti tagli non c’è niente di meglio della vulneraria…
Guardai dubbioso gli strani fiori giallastri che mi stava indicando. Avrei continuato a fidarmi della tintura di iodio e dell’alcol, però, in effetti, farmacie in paese non ce n’erano, e forse nemmeno in quello più a valle. M’augurai di non aver bisogno di provare le qualità taumaturgiche di quella pianta.
Il matto sarebbe andato ancora avanti per un pezzo nella descrizione delle sue amate piante, ma per mia fortuna ebbe pietà, così ci concedemmo una sosta per un paio di panini e per il rabbocco dei liquidi persi durante la salita.
Qualcosa comunque non tornava. Il mio salame, affettato grossolanamente, non sapeva di carne di maiale, mi pareva di addentare una saponetta, eppure all’aspetto parevano proprio delle oneste fette di salame casereccio. Continuai a masticare interdetto finché, per puro caso, individuai il colpevole di quell’attentato gastronomico.
A mezzo metro da dov’ero seduto vidi dei fiorellini tondi, un po’ come quelli del trifoglio, ma viola scuro scuro, quasi nero, delle palline fitte di petali sottili che diffondeva una tale quantità di profumo da coprire tutti gli odori circostanti. Avvicinai la mano per coglierne qualcuno.
– Fermo!
– Ma…
Chissà, forse era una pianta velenosissima, forse urticante, spinosa, magari pure carnivora, e chi lo sa. Ad ogni buon conto m’immobilizzai.
– Ma… volevo solo sentirne meglio il profumo…
– Perché, non lo senti da lì?
Effettivamente era come essere entrati in una profumeria il giorno del lancio di una nuova essenza, con tanto di prova gratuita.
– Sì, lo sento. È forte, dolce ma non melenso. Cos’è?
– Noi lo chiamiamo semplicemente “il fiore”, perché di migliori non ce n’è, e sono sempre più rari purtroppo.
– Peccato.
– Già. Son piante delicate, e a nessuno verrebbe in mente di coglierle, almeno a nessuno di qua…
Stava sicuramente per aggiungere qualcos’altro, magari qualche commento salace sui turisti, me compreso, ma ingoiò il dispiacere e l’amarezza assieme a un morso del suo panino al formaggio.
Restammo lì per un po’, ammirando con soggezione, almeno da parte mia, la lontana e inaccessibile corona di vette che ci stringeva d’assedio. Una leggera foschia offuscava il panorama a valle, smorzava i contorni e nascondeva i dettagli: meglio così. Se fossi riuscito a scorgere il paese, lontanissimo e praticamente irraggiungibile, mi sarei perso d’animo e avrei disperato nel ritorno.
Invece, complice la primavera inoltrata, ci fu tutto il tempo per fare un giretto sull’altopiano, scendere a valle, ruzzolare sulla ghiaia, consumare il fondo dei pantaloni, graffiarsi le mani, inciampare in una radice, ammaccarsi un ginocchio, percorrere a ritroso la valle (ovviamente per una strada più lunga), e finalmente, quasi al tramonto, avvertire nuovamente la presenza dell’uomo tramite i suoi inequivocabili segnali: fumo e rumore.
Uno che si fosse smarrito nel deserto e avesse scovato un’oasi umida e fresca in mezzo alle sabbie roventi non avrebbe provato il mio sollievo in quel momento. Quando finalmente entrammo in paese avevo i piedi in fiamme, le ginocchia doloranti, la milza ormai arcistufa di lanciare fitte, il naso cotto dal sole, dei leggeri capogiri da carenza di zuccheri, le spalle segate dagli spallacci dello zaino, una sete boia, ma mi pareva di aver appena varcato le porte del Paradiso.
Nella penombra preserale, trascinandomi attraverso le striminzite stradine tra le case, non potevo fare a meno di sciogliermi ogniqualvolta il mio sguardo coglieva la luce color panna che s’irradiava da una finestra, e quasi mi pareva di godere del calore che essa tratteneva all’interno, e sicuramente l’immaginazione mi faceva sentire gli odori, di cibo, di fuoco, di vita che quella tradiva.
Finalmente il mio albergo. Il matto si voltò e mi scrutò da capo a piedi con aria vagamente canzonatoria.
– Allora a domani, sempre se ti va…
– Sì, sì… domani… va bene.
– Allora ci vediamo, in paese, come oggi, sul presto però.
– In paese, ma dove… ah, sì, in paese, è ovvio.
– Allora ciao Walter, vado a casa.
– Ciao… e grazie.
– E di che?
Detto ciò, si voltò e prese la strada di casa con lo stesso passo col quale avevamo lasciato il paese in mattinata. Da non credere. Però, dopo tutta quella strada fatta assieme mi pareva incivile lasciarlo andare così, come se fosse un estraneo.
– Senti!
– Che c’è, hai cambiato idea?
– No, no. È che mi piacerebbe offrirti qualcosa in albergo. T’andrebbe di cenare assieme?
– Ah, no, grazie, come accettato, ma devo andare a casa, ho molto da fare.
– Forse domani allora?
– Vedremo, vedremo… ciao.
Rinunciai a immaginare quali improrogabili impegni lo obbligassero a casa, di sera. Le galline erano già a nanna, e l’orto, al buio, non è che lo si lavori tanto bene. Non mi pareva nemmeno un mondano tiratardi, ma d’altronde era pur sempre un matto, o almeno così si diceva in paese.
All’ingresso nell’albergo fui investito, avvolto, sopraffatto, affogato dagli aromi che provenivano dalla cucina. Dalla porta di quella spuntò il volto della mia attentatrice gastrica.
– Stufato di capriolo al ginepro, coi funghi, va bene?
Nello stato in cui ero mi sarebbero andate bene anche una crosta di formaggio con delle patate lesse, ma m’astenni dal deluderla e cercai di manifestare un genuino entusiasmo. Dopotutto avevo vinto la mia prima battaglia, avevo diritto a un premio, perciò, dopo essermi rinfrescato un po’ e cambiato d’abito, m’avviai senza rimorsi a godere del giusto riposo del guerriero, e infine resi onore alla sua cucina.
Al mattino dopo mi ripresentai, gambe legnose e ginocchia doloranti, pronto per un’altra massacrante scarpinata. Le cose andarono pressapoco nella stessa maniera del giorno precedente, solamente che fu tutto diverso: il bosco, i sentieri, le vedute, i fiori, l’aria. Se non fosse stato per la familiare vista del paese, avrei potuto giurare che nella notte ignoti m’avevano narcotizzato e spostato nel sonno in un’altra vallata.
I restanti otto giorni della mia vacanza si mantennero su questa sorprendente falsariga.
Il vecchiaccio conosceva tutti gli angoli più remoti, e mai una volta mi capitò di passare, non dico mezza giornata, ma neanche un’ora, in un posto che mi fosse già noto, nemmeno vagamente. La sola cosa che accomunava tutte quelle escursioni era l’iperattività del matto, sempre indaffarato in qualcosa, intagliare un rametto di legno, cercare dei frutti di bosco, seguire le peste di qualche bestia, far capolino in qualche nido d’uccelli, sistemare le pietre di un torrente per formare un passaggio asciutto, raccogliere la resina dei pini o le giovani pigne, e tante altre piccole cose che gli impegnavano costantemente le mani, l’occhio e la mente, quasi avesse paura che se si fosse fermato troppo sarebbe stato trasformato in una statua di sale.
Comunque il matto fu un una guida impareggiabile, un misto tra un cicerone, un maestro e Virgilio (quello dantesco). M’insegnò a riconoscere le piante commestibili e i versi degli animali selvatici, a scovare tane e nidi, a fare un fuoco senza incendiare tutto il bosco, a seguire delle tracce, a camminare senza stancarmi, in piano, in salita, in discesa, a come cadere senza scorticarsi, ed ebbe persino da ridire sul mio abbigliamento, compresa la mia igiene personale. Il terzo giorno infatti, prima di partire, mi squadrò da capo a piedi e, senza riguardo alcuno, s’espresse in un tono alquanto acido.
– Senti Walter, per un paio di giorni ho sopportato, ma quel che è troppo è troppo.
– Non capisco, che c’è che non va?
– Sei vestito come se lavorassi in un circo, e poi hai un odore addosso che ti si sente fin sull’altro versante della montagna.
– Ma… ma… questi abiti me li ha dati uno che va sempre in montagna, ha detto che sono, come ha detto… ah sì, tecnici.
– Andranno bene forse per le montagne del tuo amico, quelle con gli chalet e le funivie, ma qui sono come un pugno in un occhio, e non sto parlando dei miei gusti.
Ebbe la bontà di spiegarmi che gli animali del bosco vengono spaventati dai colori sgargianti, dal rosso specialmente, e io sembravo giusto un pomodoro con le gambe. In quanto al problema dell’odore, esso non dipendeva da un difetto di igiene personale, ma al contrario dal suo supplemento chimico: il dopobarba e il deodorante. Quelli spandevano i loro artificiali effluvi a chilometri di distanza, e così conciato non avevo alcuna speranza di sorprendere un animale selvatico, neppure stando sottovento. Se mi fossi munito di una grancassa e di una scorta di petardi sarei passato meno inosservato.
Così me ne tornai in albergo, mi sciacquai per bene e mi feci prestare una giacca di loden. Quando mi ripresentai, l’espressione soddisfatta del matto m’informò che avevo superato l’esame. Non fu per caso, presumo, che quel pomeriggio riuscimmo ad avvicinarci abbastanza a un camoscio solitario, un giovane maschio, e anche quando egli s’accorse di noi non scappò, si limitò a fissarci per un po’ e alla fine se ne andò per i fatti suoi con flemma estrema.
In quella settimana e mezza imparai molte cose, forse inutili, anzi sicuramente inutili in città, ma essenziali dove mi trovavo. Solo una cosa s’ostinava a rimanere incomprensibile: la natura della mia guida.
Era pomeriggio inoltrato e stavamo attraversando una giovane abetaia. La mia mente era già rivolta all’indomani, il giorno della mia partenza, e mi risolsi a fare quella domanda che mi ronzava per capo già da un po’.
– Senti…
– Si?
– Perché ti chiamano il matto?
Ebbi l’impressione che anche gli uccellini si fossero azzittiti. – Ecco, – pensai – l’avevo fatta grossa. Come al solito la mia boccaccia aveva rovinato tutto.
Lui mi fissò in silenzio per più di qualche secondo, e io mi sentii perduto, come se i suoi occhi avessero il potere di attraversarmi da parte a parte e lui stesse cercando il mio cuore da fermare per sempre. Si scatarrò un po’ la gola, forse per prepararsi a una maledizione biblica oppure a un insulto corrosivo, quindi mi sorrise.
– Beh, Walter, penso che, tutto sommato, almeno questo tu te lo sia meritato.
– Meritato? Cosa… non capisco.
– Di saperlo, penso che ormai mi possa fidare di te, almeno un po’.
– Ah sì, e come mai? Veramente io non…
– Appunto, tu non!
– Non?
– T’ho fatto trottare per bene; t’ho fatto sudare sotto il sole e tremare nell’acqua del torrente, hai patito la sete, il mal di schiena, ti si è sicuramente rotta qualche unghia dei piedi, ti sei spellato le ginocchia e ammaccato l’osso sacro. Ragazzo, mi sono divertito assai a farti sputare anche l’anima, ma tu “non” ti sei mai lamentato, “non” hai mai ceduto, “non” hai mai rimpianto gli agi di città, “non” hai mancato di rispetto alla montagna, alla sua gente, e nemmeno a me naturalmente!
– Io, veramente… ah, ma allora l’hai fatto apposta!
I nostri volti rimasero seri solamente per un altro secondo, poi non ce la facemmo più e scoppiammo a ridere.
– Maledetto, io ho pure rischiato l’osso del collo, e tu ti stavi divertendo!
– Uh, dovevi vedere la tua faccia quando sei scivolato giù, nel canalone!
– E come no. La prossima volta mi porto uno specchio e una macchina fotografica.
– Portati anche un asciugamano per quando cadrai di nuovo nel torrente!
– Invece vedrai che ti ci butto io dentro!
– Sì, se mi riesci a pigliarmi però, sei una tale lumaca…
E giù a ridere e a sfottersi. Poi lui ritornò serio.
– Già, ma tu volevi sapere perché mi chiamano il matto.
– Non sei obbligato.
– No, è vero, ma la strada per il paese è ancora lunga. C’è giusto il tempo.
Riprendemmo a camminare, piano però, e mi raccontò la sua storia, o almeno la parte che giustificava quell’appellativo.
Non era di quelle parti, e già lo si capiva da come parlava: troppo bene per un montanaro. Amava la montagna da sempre, ma la sua vita e il suo lavoro, un tempo, erano in città.
Non fu una confessione, fu un racconto, la vita di un’altra persona, quella che un tempo egli fu e che mai più sarebbe stata. Ecco la sua storia.
Tanti anni prima, anche se non fu mai preciso ne valutai più o meno una quindicina, quando non era ancora “il matto”, quella persona era un medico, e anche molto apprezzato. Lavorava in un grande ospedale e si poteva permettere un bell’appartamento, una moglie giovane e raffinata, un’automobile, il televisore, e tutti quei nuovi sfizi americaneggianti che stavano su venendo di moda.
Sul lavoro era considerato il “cocco” del primario e suo sicuro successore. Insomma tutto pareva che andasse a gonfie vele.
Figli, no. Prima non c’era tempo, gli studi, il lavoro, la carriera, poi non era più tempo. Pazienza, lui e la moglie erano abbastanza soddisfatti della loro vita, brillante, di società, più che agiata, ma… a lui capitava talvolta di sentire come se la sua esistenza da un po’ stesse girando in folle, liscia sì, però come un mare in bonaccia, troppa bonaccia.
Quella settimana di inizio giugno gli era toccato di sostituire il primario per il disbrigo di una gran quantità di pratiche burocratiche. Stavano riorganizzando l’ospedale e c’era un’infinità di dati da trasferire, di cartelle da archiviare, di bollettini da riportare, e siccome erano informazioni che attenevano alle terapie e ai pazienti non potevano essere affidati a una semplice segretaria, così era toccato a lui, il cocco, quel lavoro monotono.
A fine giornata stava guidando la sua Granluce verso casa, pensando che anche lui, prima o poi, si sarebbe potuto permettere un’Appia, come quella del primario. Entrò nel tunnel e accese i fari; quando ne uscì notò che stava piovendo. Frenò, attivò i tergicristalli, afferrò la leva del cambio dietro al volante e scalò in terza. Nella frenesia delle manovre sbagliò qualcosa perché gli ingranaggi protestarono con una rovinosa grattata.
– Porca miseria.
Per tutto il giorno il tempo era stato bello, anzi, era quasi sicuro che prima di entrare nel tunnel il sole basso del tramonto l’avesse accecato per un istante. Forse si sbagliava, forse erano stati i fari di un’altra automobile, forse, pensando all’ambita Lancia, non s’era accorto che stava già iniziando a piovere. Fatto sta comunque che in quel momento indossava solamente un completo leggero di lino: pazienza, si sarebbe bagnato.
– E che sarà mai, per quattro gocce di pioggia…
Poi le gocce diventarono quaranta, quattrocento, quattromila, un diluvio. Sentiva il sordo tambureggiare della pioggia che batteva sul tetto di sottile lamiera.
– Mi toccherà aspettare in macchina che si calmi un po’, altrimenti rischio di beccarmi un bel raffreddore.
Ormai anche i tergicristalli faticavano a pulire il parabrezza e i finestrini si stavano appannando, così si inclinò di lato e allungò il braccio per aprire il deflettore di destra, quando notò accanto a lui, sulla seduta del divano, l’impermeabile e l’ombrello. Rivolse allora, a voce alta, una preghiera di ringraziamento a sua moglie.
– Santa donna, deve aver previsto questo acquazzone, e così ha pensato bene di infilare in macchina il necessario. Col sole che c’era stamane, a me sarebbe sembrato ridicolo. Dev’essere proprio vero che le donne hanno un sesto senso, il senso meteorologico!
Arrivato a casa, bagnato ma non zuppo, si trovò davanti alla moglie, e dopo averla salutata non fece nemmeno in tempo a ringraziarla che quella lo incalzò con una certa apprensione.
– Fai presto caro, cambiati, c’aspettano.
– Chi c’aspetta?
– Come chi? i Ferletti!
– Ma dai, anche stasera. Tanto ci vediamo domani a teatro.
– Caro, il teatro è oggi.
– Come sarebbe a dire oggi… il teatro è venerdì sera, non oggi…
Si zittì, in preda a un dubbio, che giorno era? Giovedì, era sicurissimo che fosse giovedì, si ricordava benissimo la pagina della sua agenda, quella degli appuntamenti, e la riunione con i colleghi per stabilire i turni di sabato, riunione che si teneva sempre il giovedì mattina. Poi il pomeriggio nello studio, col sole, c’era il sole, l’uscita dall’ospedale, la milledue nel parcheggio, il tunnel, la pioggia. Nessun venerdì nei suoi archivi mentali, niente di niente.
Si cambiò, uscirono, incontrarono i Ferletti, andarono assieme a teatro, poi a cena, tardi, e discussero del fato maligno che immancabilmente regalava la pioggia nella fine settimana, nel weekend, come usavano dire quelli più al passo con i tempi nuovi.
Istintivamente rinunciò a insistere nella sua convinzione che fosse giovedì sera. Per tutti era venerdì, e lui stette, come dire, al gioco. Magari si trattava di un colossale scherzo, un po’ troppo elaborato per i suoi gusti, o forse stava sognando in maniera eccessivamente realistica, o magari era semplicemente stanco. Sì, era decisamente stanco, si sarebbe preso ancora un giorno di riposo dopo la fine settimana.
E così fece.
Il lunedì mattina telefonò all’ospedale, disse che non si sentiva tanto bene, niente di grave, un malessere passeggero; essendo lui medico potevano ben credergli. Quindi salutò la moglie che stava partendo. Lei andava un paio di giorni a casa dei suoi, a lavorare, o perlomeno a fare quello che lei considerava un lavoro, disegnare bozzetti di vestiti nella sartoria alla moda del babbo. Perlopiù si limitava a chiacchierare con le clienti della boutique.
Così si ritrovò, solo, a ciondolare per casa in ciabatte e vestaglia da camera. La cameriera tuttofare era andata al mercato, perciò non c’era modo di scambiare una parola con qualcuno, così si buttò sul basso divano del salotto con un libro che attendeva di essere letto da mesi; lasciò entrambi dopo una decina di pagine. Andò in cucina e si preparò qualcosa da bere, un’aranciata fredda con correzione di vermut secco, quindi accese la radio inondando la casa con un fiume di insulse canzonette che parlavano di amore, sole, arcobaleno, libertà, tutte invariabilmente a sproposito. La spense disgustato, tornò in salotto e, tra le innumerevoli riviste di moda, scovò alcuni numeri di Quattroruote. Li aveva già letti, ma li sfogliò ugualmente, tanto per passare il tempo.
Il suono del telefono lo svegliò di soprassalto; evidentemente s’era appisolato. Era la sua segretaria.
– Buongiorno dottore, mi scusi se la disturbo.
– No, no, non fa niente, dica, dica.
– Siccome ci sarebbe un caso urgente ci si chiedeva se lei potesse venire in ospedale un po’ prima…
– Se?
– No, volevo dire, sempre se oggi si sente meglio, mi scusi.
– Guardi signorina che le ho già detto stamane che oggi non vengo, non mi sento bene. Ci vediamo martedì. Se n’è forse scordata?
– No, è che… ehm… è oggi martedì, e allora abbiamo pensato che forse… sa, il primario ha chiesto espressamente di lei.
Martedì, era martedì, che fine aveva fatto tutto il resto del lunedì? Non stette troppo lì a chiederselo. Calma, bisognava mantenere la calma, evidentemente s’era addormentato; certo è che ventiquattrore filate di sonno non sono una cosa normale. E poi, come mai ora indossava il pigiama invece della vestaglia? E perché si trovava in camera da letto, dov’erano finiti il divano e le riviste? Se lo sarebbe chiesto più tardi, non era nello stato di darsi una spiegazione logica.
– Mi scusi signorina, va tutto bene, ho fatto confusione io. Arrivo subito.
– Grazie dottore, buongiorno.
Clic.
Stette a fissare stralunato la cornetta del telefono, come se quella potesse fornirgli qualche spiegazione, poi la riappese, delicatamente, quasi temendo di essere sentito da un predatore in agguato che aspetta il minimo indizio della preda. Guardò ancora per un attimo quel mostro nero e lucido che stava sul suo comodino, e poi si decise a cancellare ogni quesito per far posto alle materiali incombenze che premevano.
In ospedale, leggero ritardo a parte, tutto filò liscio come al solito: emise diagnosi, definì prognosi, valutò profilassi, confortò pazienti e parenti, azzardò ipotesi e ne azzeccò qualcuna, accettò con saccente filosofia le sconfitte e le vittorie, tutto quello che fanno i medici insomma.
A sera tornò a casa, stanco, ma confortato dal fatto che, per tutti, fosse ancora martedì.
– Ciao caro, sei arrivato finalmente… uh, ma che aspetto orribile. Che hai, stai ancora male?
– Non è niente, sono solamente un po’ stanco. Domani sarò a posto.
Andò in cucina e consultò il calendario di Frate Indovino, quindi fece un segno di spunta accanto al numero 7.
– Martedì, oggi e martedì. Ma domani?
– Dicevi caro?
– Nulla, nulla, pensavo tra me e me.
Il mattino dopo era mercoledì, e questo fatto lo rallegrò assai, quasi fosse una vittoria personale. Prima di andare al lavoro baciò la moglie e le promise che presto l’avrebbe portata finalmente a Cortina.
In ospedale poi fu di un umore insolitamente piacevole, offrì il caffè a qualche collega, e pure alla sua segretaria, s’attardò un po’ di più con qualche paziente particolarmente grave o apprensivo, evitò di arrabbiarsi per gli inevitabili contrattempi della giornata. Alla sera, invece di cenare a casa, diede appuntamento alla moglie in un bel ristorantino di loro conoscenza, e poi andarono anche a ballare.
Finalmente, prima di andare a letto, andò in cucina e, con estrema soddisfazione spuntò il giorno 8, mercoledì.
– Giovedì, domani è giovedì.
E se ne andò a dormire con un sorriso beato stampato in faccia.
L’indomani era effettivamente giovedì, 9. Tutto pareva tornato al suo posto, anche se la giornata in ospedale non fu così spumeggiante come la precedente. Alla sera fece il solito segno di spunta vicino al numero 9.
– Bene, bene, bene. Domani è venerdì.
Come previsto, al mattino dopo era venerdì. Andò a lavorare e durante tutta la giornata ebbe nuovamente tra le mani quel mare di scartoffie da archiviare, perciò nemmeno si presentò in corsia.
A casa, prima di coricarsi, si presentò puntuale al suo appuntamento in cucina col calendario.
– Allora, segniamo che oggi è venerdì… 17! Come sarebbe a dire il 17?
Guardò smarrito i segni di spunta presenti su tutti i giorni precedenti: il 10, l’11, il 12, il 13, il 14, il 15. il 16; li aveva segnati lui, ma aveva dimenticato tutto. Si era perso un’intera settimana!
Le gambe per un momento gli cedettero e sentì come se una scossa elettrica percorresse lentamente tutto il corpo, dai piedi ai capelli. Riuscì comunque a non urlare. Andò a letto, non per dormire, questo era fuori questione, ma per appoggiare il suo corpo in una posizione che gli evitasse di afflosciarsi come un sacco vuoto.
– Che hai caro, senti freddo? Tremi tutto…
– Non è niente cara, dormi, dormi… buonanotte.
Al mattino dopo, nello studio dell’ospedale, controllò le note nella sua agenda.
In quella settimana svanita nel nulla aveva avuto a che fare con le solite cose, visite, consulti, scartoffie, soprattutto scartoffie, niente che potesse giustificare un’amnesia da trauma. Del resto era evidente che anche lui aveva svolto le sue mansioni con la consueta diligenza senza dar adito a sospetti di sorta. Insomma aveva vissuto normalmente; peccato che lui non ricordasse più nulla, né cosa aveva fatto e né tantomeno il momento di quel suo distacco dalla realtà temporale corrente.
Chiese alla sua segretaria di non essere disturbato per un paio d’ore almeno; ormai era chiaro, esisteva un problema, lui aveva un problema, ma doveva affrontarlo da medico, ovvero indagando su cause e rimedi, e nel frattempo doveva fare in modo di mitigarne i controproducenti effetti.
Andò alla libreria e cercò tra i testi quelli che trattavano di amnesie, turbe neurologiche e della memoria, quindi li infilò nella sua cartella: li avrebbe consultati a casa per non destare sospetti. Contattò telefonicamente qualche suo collega neurologo, e, tenendosi sul vago, chiese loro se potevano aiutarlo con un paziente che presentava una una particolare patologia. Per ultimo prese la decisione di registrare tutto sulla sua agenda personale, anche i dettagli più insignificanti; le annotazioni l’avrebbero certamente aiutato nell’analisi del problema, e, finalità non secondaria, sarebbero state la sua memoria, se e quando quella avesse deciso di abbandonarlo.
Per quasi un mese tutto filò liscio, qualche giorno saltava, ogni tanto, ma grazie alle precise indicazioni della sua agenda e a un’incorruttibile faccia di bronzo riuscì a tamponare quelle lacune della memoria. Poi franarono quindici giorni di vita, tutti assieme, e vennero a galla le prime grane, un volto non riconosciuto, un appuntamento importante mancato, qualche errore di troppo, e perciò si cominciò a mormorare che non era più lui, che sembrava come strano, smarrito, indecifrabile.
Due diagnosi, sue entrambe ma diametralmente opposte, sullo lo stesso paziente, insospettirono il primario, il quale lo pregò di seguirlo per un chiarimento nel suo ufficio personale, e lì il castello di carte crollò.
Le conseguenze furono ovvie: immediata sospensione dal ruolo e sollecito invito a farsi vedere da uno specialista; i colleghi, con incontenibile ipocrisia, gli augurarono una pronta guarigione.
A casa fu ancora peggio, subito e dopo.
Il subito: sua moglie si fece prendere da una piccola crisi isterica, non si capiva se per la sua malattia o per la sospensione dal lavoro, oppure per essere stata tenuta all’oscuro di tutto; fatto sta che si dovette chiamare un dottore, un dottore sano s’intende, il quale prescrisse dei banali calmanti.
Il dopo: gli episodi di amnesia non accennarono a scemare, anzi tendevano a crescere in frequenza nonostante egli si fosse fatto visitare dai migliori specialisti e si fosse fatto avvelenare con le peggiori sostanze esistenti sulla Terra; non se ne veniva a capo.
Lui era ancora relativamente giovane, non presentava i sintomi della demenza precoce; traumi fisici o psicologici non erano emersi, neppure con l’ipnosi; non beveva, almeno non fuori misura, non fumava, e fisicamente era in ottima forma; insomma non c’era dove appigliarsi per poter dire “ah, ecco!”
La moglie non gli parlava quasi più, se non per fargli delle crudeli domande su un passato a scacchiera o per supplicarlo di andare a Lourdes.
Dopo l’ennesimo salto temporale gli capitò di alzarsi dal letto e di trovare un’infermiera in casa.
– Buongiorno, o buonasera, quello che è, dov’è mia moglie?
– Ehm… è andata dai suoi, per un po’. Non ricorda?
– Capisco…
– Sì, ma non si preoccupi, m’ha lasciato tutto scritto, le medicine, gli orari, tutto.
– Tutto?
– Certamente, ne avevamo già parlato. Ah sì, e c’è questa lettera per lei, m’ha chiesto di ricordarglielo. È arrivata avantieri. Mi scusi, ma non l’ho aperta io.
– Non fa nulla, me la dia pure. Facile che l’abbia aperta io stesso e che ora abbia dimenticato di averlo fatto.
La missiva proveniva dall’ospedale. Cominciava con una profusione di ringraziamenti per la sua attività, per quanto la sua assenza si notasse, poi cambiava registro, faceva notare, con rammarico, che facendo fede al contratto, ai termini di scadenza, al periodo trascorso, anzianità e quant’altro, si trovavano costretti a rinunciare alla sua collaborazione; in pratica gli davano il benservito, non mancando di assicurargli i loro più sinceri auguri di risanamento.
Visualizzò mentalmente la sua situazione: malato, forse pazzo, piantato dalla moglie, e adesso anche senza un lavoro, cosa chiedere di più dalla vita? Così si ritrovò a ciondolare per casa, accudito dall’infermiera, la quale fungeva anche da orologio e calendario.
Il futuro, impossibile per lui stabilire quanto lontano, non era per niente rassicurante. Senza una cura efficace le crisi di amnesia l’avrebbero sempre più estraniato dalla realtà, perciò intravvedeva profilarsi all’orizzonte una lunga, lunghissima, forse definitiva, reclusione in manicomio. No, questo non poteva accettarlo.
Se era destino che la sua vita dovesse trascinarsi penosamente in quei luridi stanzoni tanto valeva darci un taglio, saltare il fosso finché si aveva la forza e la lucidità per farlo.
Sapeva come fare, era pur sempre un medico, e in casa non mancavano gli ingredienti per un suicidio a regola d’arte. Ci pensò un po’ su e si risolse per i cari vecchi barbiturici, un classico.
Ma non voleva morire lì, chiuso tra quelle quattro mura; non avrebbe dato la soddisfazione a qualche suo ipocrita collega di trovarlo, di compatirlo, di aprirlo per frugare dentro al suo cadavere; e se la sua amata mogliettina, così premurosa quando lui era in vetta, non aveva ritenuto sopportabile la situazione, ebbene lui l’avrebbe accontentata sparendo per sempre dalla sua brillante vita.
Di prendere la macchina neanche a parlarne, avrebbe destato troppi sospetti, e magari, nel suo stato, avrebbe potuto anche procurare un guaio. Meglio, molto meglio l’anonimo e indifferente trasporto pubblico.
Il giorno seguente, di primo mattino, disse alla sua infermiera che aveva desiderio di fare una passeggiata nel vicino giardino pubblico, giusto un giretto per prendere un po’ d’aria frizzantina. Male non gli avrebbe fatto. Quando uscì dal portone non erano nemmeno le sei, e le strade erano semideserte. Alcuni spazzini comunali ripassavano i marciapiedi che circondavano il grande giardino comunale e intanto chiacchieravano; un paio di robusti ragazzi stavano scaricando delle casse di verdura da un furgone 1100 col motore acceso; ogni tanto passava qualche bicicletta scassata, da operaio, o fiammante, da studente. Era l’ultima volta che avrebbe visto quella strada, trafficatissima di giorno, ma in quel momento quasi silenziosa, giusto l’ansimante brontolio del furgone, una melodia fischiettata da qualche ciclista, le grasse risate degli spazzini, e, finalmente, lo sferragliare del tram. Con quello arrivò fino all’autostazione dove prese un biglietto per la corriera delle sette, quella rossa con i finestrini panoramici, quella diretta in montagna.
Fino a quel momento aveva avuto fortuna; non aveva incontrato nessuno in grado di riconoscerlo, e la corriera, un po’ perché era un giorno feriale (quale?) e un po’ perché era ormai bassa stagione, partì semivuota.
Si sedette in fondo, vicino al finestrino, e si predispose ad assaporare fino all’ultima goccia il suo viaggio definitivo. Sfiorò con la destra il taschino della giacca di tweed e sentì la presenza confortante del sottile flacone di pillole. Ce n’erano abbastanza per suicidarsi tre volte. In una tasca interna, nel portafogli, teneva un biglietto, una specie di sintetico promemoria, indispensabile nell’eventualità di una crisi della memoria, anche la più disastrosa. C’era scritto tutto, chi era, dove doveva andare, cosa doveva fare, e soprattutto il motivo di quel viaggio in montagna.
Verso la mezza la corriera arrivò al passo. Lui fu l’unico a scendere, tra la curiosità e la perplessità degli altri passeggeri. Il suo abbigliamento, niente pedule, niente maglione, niente zaino, sarebbe stato già incongruo in paese, immaginarsi lì, tra gli abeti rossi e il pino mugo.
Aspettò che il torpedone ripartisse, quindi si diresse deciso verso la sua destinazione. Sapeva bene dove andare, c’era già stato anni prima e l’aveva trovato un luogo incantevole, trascendente. Bisognava risalire il corso di un vivace torrente fino alla sorgente, e quindi inerpicarsi su per un ghiaione, per ritrovarsi su un piccolo altopiano, un poggio dal quale si dominava la valle che si stendeva verso Ovest. Avendo alle spalle le pareti di un imponente massiccio si era totalmente isolati, acusticamente e antropologicamente. Mai nessuno veniva lì: non c’era pascolo, non c’erano funghi, niente che valesse la fatica di arrivare fin lassù. Perfetto.
Il matto tacque, come per un pudore improvviso, s’udivano solamente i tonfi dei nostri scarponi sul tappeto di aghi di pino.
Dopo un paio di minuti mi feci coraggio.
– Per fortuna hai evidentemente cambiato idea.
Mi fulminò con lo sguardo.
– Un corno!
– Ma allora chi è stato…
– Nessuno è stato, o meglio, è stata la mia stupidità.
Non sapevo che dire, avevo timore di insistere, di curiosare nel suo doloroso passato, perciò rimasi in silenzio attendendo che, casomai, andasse avanti lui col racconto.
– Sì, è vero, sono stato proprio un fesso; salire il ghiaione con le scarpe da città. Ma si può essere più stupidi di così?
– Non saprei.
– Lo so io, per esperienza.
– E allora?
– A metà del ghiaione le suole di cuoio persero la presa e caddi in avanti, e poi iniziai a ruzzolare giù.
– Caspita.
– Non so come, riuscii ad abbrancare un arbusto e mi fermai, altrimenti…
– Altrimenti saresti morto?
– Forse sì e forse no, invece m’ero solamente fatto male. Una caviglia era partita, e forse anche il ginocchio.
– Che sfortuna…
– Ma la notizia peggiore era che il flacone dei barbiturici se n’era uscito dalla tasca della giacca, per infrangersi tra le rocce sottostanti. Ero fregato. Non avevo speranze di ritrovare quelle pillole tra i sassi. Chissà dov’erano andate a infilarsi, e non m’allettava l’idea di infliggermi la sofferenza di tagliarmi le vene con i cocci di vetro del flacone.
– E allora cos’hai fatto?
– Niente, me ne restai lì a maledire il mio destino e la mia testaccia. Non potevo muovermi, la caviglia destra mi faceva un male del diavolo, e ormai era tardi per fare qualsiasi cosa.
– Non ti capisco.
– Semplice. Avevo programmato tutto. Sarei arrivato sul poggio un paio d’ore prima del tramonto, e solo allora avrei preso i barbiturici, godendomi quell’ultimo spettacolo, prima che scendesse l’oscurità, sui monti e su di me. Peccato che quel piano perfetto fosse miseramente fallito, ma non per questo motivo il Sole si fermò nel cielo ad aspettarmi. Così, dopo un po’, mi ritrovai al buio.
– Ah, già, l’ho notato anch’io, qua non scende la notte, precipita.
– Non basta. Con la notte arrivò il freddo, tanto freddo, e una brezza tagliente, come spruzzate di acqua gelida. Io indossavo solamente un completo sportivo, per cui non sapevo se piangere per lo sconforto, per il dolore alla caviglia, o per il gelo che mi succhiava via il calore dal corpo. Ma il peggio doveva ancora arrivare.
– Peggio di così… forse i lupi?
– Peggio.
– Peggio?
– La sete.
Mi raccontò che non s’era portato niente da bere, visto che le pillole era abituato a mandarle giù da sole, senza bisogno di un sorso d’acqua. Aveva preso giusto un cappuccino e un bicchier d’acqua durante il tragitto, quando la corriera aveva fatto una sosta in un’autostazione, e a metà nottata già sentiva la necessità di bere qualcosa, qualsiasi cosa, purché liquida. Al mattino, un bel mattino soleggiato e quindi relativamente caldo, la sete divenne impellente, imperativa, sovrastante tutti i dolori, fisici e psicologici.
Di levarsi in piedi neanche a parlarne. Allora cominciò a trascinarsi sdraiato giù per il ghiaione, per arrivare alla sorgente alla sua base. Fu uno strazio.
Procedeva lentamente per paura di rotolare dabbasso, e soprattutto per evitare di urtare violentemente le pietre con la caviglia ormai gonfia e il ginocchio malandato. Furono attenzioni inutili in quanto, per quanto cautamente si muovesse, finiva sempre per scivolare inaspettatamente di qualche metro, spellandosi le mani e sbatacchiando l’arto infortunato su quella superficie scabra e traditrice. Ogni spostamento era una tortura, una stilettata feroce e dolorosa, smorzata la quale tornava prepotente la sete.
Il giorno prima aveva impiegato meno di un paio d’ore per salire su per quel tratto di ghiaione. Ci mise tutta la giornata per ridiscendere. Quando finalmente giunse alla base del ghiaione era buio, perciò, pur udendo di tanto in tanto l’invitante gorgoglio dell’acqua, non ci sarebbe stato verso di trovare quell’esile corso, e nelle sue condizioni poi…
Per disperazione si ridusse a mangiare le foglie che trovava trascinandosi, a tentoni, su quella superficie sassosa. Erano amarissime come il fiele: sperò che almeno fossero velenosissime. Purtroppo per lui non lo erano, però almeno contenevano acqua, poca, ma sempre meglio di niente.
Fu una notte da incubo, infinitamente peggiore della precedente. La caviglia pulsava dolorosamente, già scottava; si tastò cautamente il ginocchio, gonfio, bloccato; il bruciore di mille abrasioni lo tormentavano come uno sciame di vespe infuriate; gola, palato e labbra erano infiammate dall’arsura, e al posto della lingua gli pareva di avere in bocca un pezzo di legno malamente sbozzato; lo stomaco gli doleva, forse a causa di quelle foglie misteriose, forse perché ne aveva trovate troppo poche, e chi lo sa; aveva sicuramente la febbre, tremava, e non solamente per il freddo; nonostante non avesse bevuto nulla era comunque riuscito a pisciarsi nei pantaloni, ne sentì la gelida umidità.
Per fortuna la testa gli funzionava ancora passabilmente, altrimenti si sarebbe ridotto a chiamare aiuto fino allo sfinimento, al collasso, alla pazzia. Sapeva bene che la montagna, per quanto sia silenziosa, è talmente vasta da succhiare via la forza di un grido ben prima che questo raggiunga un orecchio amico.
All’alba si rese conto di essere finito. Il rivolo d’acqua sarà stato a una cinquantina di metri, non di più, ma per lui erano come cinquanta anni luce. Dopo quella notte d’incubo non aveva più nelle braccia nemmeno un briciolo di forze per trascinarsi fin lì. Gli girava la testa, aveva la vista offuscata e le orecchie gli rombavano. Sveniva in continuazione, sconvolto da una nausea asciutta e da conati che lo strozzavano. Continuava a tremare, anche se ormai faceva caldo. Ogni suo respiro era accompagnato da un gemito.
Prima di perdere definitivamente conoscenza ebbe ancora uno sprazzo di lucidità e comprese che, tutto sommato, ce l’aveva fatta, anche se non era più tanto fermo nel suo proposito suicida, anzi.
– E poi?
– E poi lei mi trovò, per caso.
– Lei chi?
– Ma sì, l’hai conosciuta, Valeria, la moglie dell’albergatore. Allora era molto più giovane, ma aveva già la passione per gli intrugli di erbe.
– Ah, sì, questo lo so.
– Sì, per la sua famiglia è un’antichissima tradizione. Si dice che un loro antenato sia stato al servizio dai Borgia.
– Eh, ti credo, ne ho avuto esperienza diretta…
– Immagino. Comunque lei era venuta su per cercare dell’arnica, e invece ha trovato me. Brava ragazza, forte e coraggiosa. Invece di scappare m’ha sollevato, per depormi, abbastanza delicatamente suppongo, all’ombra. Ha versato un po’ d’acqua sulle mie labbra, m’ha inumidito la fronte e quindi è corsa a cercare aiuto presso un boscaiolo che abitava un po’ più a valle. Quello è venuto su con un carretto trainato da un mulo e con quel mezzo m’hanno portato in paese che ero più morto che vivo.
– E ti credo, due giorni senza bere niente!
– Quasi tre, visto che in paese c’arrivai che era sera, e da svenuto non potevo bere. Una levatrice che ne masticava un po’ di, chiamiamola medicina, riuscii a svegliarmi e a farmi scivolare nello stomaco della melata disciolta nell’acqua, e con quella mi salvò la vita. Comunque ci misi due settimane buone prima di rimettermi in piedi. Per camminare dovetti attendere molto di più.
– Chiamarono un dottore?
– No.
– E perché?
– Perché ebbi la fortuna di incontrare della brava gente.
Mi raccontò che i paesani, dopo essersi sincerati che il loro ospite misterioso probabilmente non sarebbe morto di lì a poco, lo spogliarono dei suoi vestiti ormai a brandelli e tentarono di curare come potevano le sue numerose ferite.
Nel trambusto un ragazzino trovò il suo portafoglio e, non sapendo ancora leggere, lo portò dal prete. Quello cercò tra i documenti l’indirizzo di qualche parente da avvertire, o semplicemente il nome del malcapitato, finendo per scovare anche quel foglio, il promemoria, e ne fu dolorosamente colpito. Con la certezza che fosse stato Dio a sventare l’atto suicida e a inviare tra loro la pecorella smarrita, raccomandò a tutti il segreto su quel fortunoso ritrovamento, nella più ragionevole convinzione che il poveretto, rimandato nel suo mondo, tra le sue sventure, prima o poi avrebbe ritentato quell’empio gesto. In attesa e nella speranza che si ristabilisse, gli si trovò una sistemazione su un letto in canonica, e lì, chi ne sapeva qualcosa, si prodigò per cercare di rimetterlo in sesto.
Era povera gente abituata ad arrangiarsi, e che, non avendo studiato all’università, era costretta a rimediare come meglio poteva agli accidenti che capitavano nella vita, dal raffreddore agli avvelenamenti, affidandosi alle parole dei vecchi e alla fortuna.
– Comunque, come vedi, hanno fatto un ottimo lavoro – disse il matto sbattendo con forza le palme delle mani sul davanti delle cosce.
– Sono d’accordo, anzi direi persino riduttivo definirlo solamente ottimo. La fatica che ho provato per starti dietro promuove quelle rustiche cure al rango di miracolose.
Intanto che ascoltavo il matto mi venivano in mente tutti gli specialisti che conoscevo in città, fior di professori che si facevano pregare per un appuntamento, e che per prendere una qualsiasi decisione sottoponevano il paziente a esami sopra esami, per poi fallire miseramente la diagnosi. Non potei che confermargli la mia sconfinata ammirazione per quei medici “naif“.
– Effettivamente devo ammettere che, come ortopedici, se la sono cavata egregiamente.
– Che vuoi, qua in montagna le cadute son frequenti, una slogatura o una frattura possono capitare, e loro hanno maturato, come dire, una certa esperienza nel rimediare così, alla cieca, senza radiologia, solamente tastando l’articolazione.
– Caspita.
– Oddio, non va sempre bene. Avrai pur notato qualcuno che zoppica o che ha qualche arto irrigidito, ma credimi, te lo dico per esperienza, non è che all’ospedale fossimo tanto più bravi.
– Ma, in tutti questi anni, è possibile che nessuno sia mai venuto a cercarti quassù?
– E perché dovrebbe? A casa, in città, lasciai un biglietto, quattro righe, in buona sostanza un addio, e penso che ormai sarà stata dichiarata la mia morte presunta. Durante il viaggio non parlai con nessuno. Per tutti ero un turista di passaggio, magari poco attrezzato, comunque niente di straordinario e memorabile.
– Ma sui giornali, oppure i Carabinieri… qualcuno t’avrà pur riconosciuto.
– Ah, i giornali! E che pensi, che qui la gente ha il tempo di scendere al caffè e sfogliare un giornale? Primo, qua sono indaffarati come le formiche, dall’alba al tramonto, e anche oltre; secondo, niente caffè; terzo, i giornali non arrivavano; quarto, il prete aveva imposto il segreto e tanto doveva bastare.
– Accidenti!
– E quinto… hanno preso a volermi bene, e io a loro.
Eravamo giusto in vista delle prime case e ci fermammo un attimo a contemplare quel pugno di poveri edifici arroccati, le volute di fumo che si levavano dai camini e l’effetto creato dall’intreccio del quasi bianco della pietra con il quasi nero del legno, il tutto su un fondo verde scuro.
Il matto tacque, e anch’io. Chissà quale ridda di pensieri gli vorticava per capo, quanti ricordi, quante facce, quante sensazioni.
Sospirò, e sorrise.
– Sì, ci sto bene qua. Mai stato meglio.
– Insomma nessuno sa chi sei?
– E come no, io sono il matto, te lo sei scordato?
– No… ehm… volevo dire il nome vero…
– Ah sì, il nome… lo sa solamente quel prete, e di lui posso fidarmi ciecamente. È morto.
– Ma non si può stare senza un nome.
– Certo che no. A me hanno affibbiato quello d’un poveraccio che era partito per l’Australia. Un giorno fu recapitata una lettera a un suo amico qui in paese, inviata da una compagnia di navigazione. La lettera diceva che, a causa di una malattia, o del caldo, quel povero cristo era morto durante la traversata e che, mancando di una cella frigorifera adeguata, l’avevano dovuto seppellire in mare, e aggiungeva la preghiera di avvisare i suoi parenti della disgrazia, allegando un documento redatto in una lingua sconosciuta; probabilmente era il certificato di morte. Fine delle speranze, fine delle sofferenze, fine della vita.
– Che sfortuna.
Sai come si dice, mors tua vita mea. Siccome non aveva più parenti in vita la lettera venne distrutta, e io divenni colui che mai partì, o che partì e poi tornò, e chi lo sa, sono matto…
– Anche questa casa?
– No, no. La sua casa era già crollata poco prima che arrivassi. In quella che hai visto c’abitavano due vecchi, soli senza figli. Se n’erano andati quasi assieme, una a pochi giorni di distanza dall’altro, e la casa era rimasta desolatamente vuota, comunque troppo lontana dal paese per far gola a qualcuno. E così ci sistemarono me.
– Ma è veramente strano che mai in tutti questi anni nessuno, l’autorità, il comune, abbia ficcato il naso…
– Il comune? Il sindaco? Lui è giù, a valle, in Villa Grande, e chi manco lo conosce? E le uniche divise che vediamo sono quelle degli alpini quando passano di qua per andare in altura.
– Capisco.
– A dire il vero, l’ispettore della Forestale sospetta qualcosa, ma…
– Ma?
– Lui si sposò con una di qua, e alla nascita del primo figlio ci furono delle gravi complicazioni al momento del parto. La levatrice s’era arresa, e di portare la giovane partoriente in ospedale non se ne parlava, non c’erano né il tempo e né i mezzi adeguati. Per lugubre precauzione venne chiamato il prete, e lui svolse il suo ingrato compito tra la costernazione generale e la disperazione del marito, prossimo a diventare vedovo.
– Non vedo il nesso.
– Aspetta, hai sempre fretta, come tutti quelli di città.
– Scusa.
– Insomma, impartiti i sacramenti, il prete si ricordò di me, di quel promemoria, di ciò che un tempo fui e che non potevo aver cancellato del tutto. Mi mandò a chiamare, con urgenza, e, dopo aver fatto allontanare tutti tranne la fidata levatrice, mi pregò di cercare di salvare quelle due vite, o almeno ciò che era ancora salvabile.
– Ha rischiato di smascherarti.
– Sì, hai ragione, ma dopotutto io dovevo la vita a loro, e finalmente avevo una minima possibilità di ricambiare.
– Vero.
– Fu una lunga notte, di sudore, di dolore, di sangue e di paura, Tutti avevamo paura; spaventata la giovane al suo primo parto, probabilmente anche l’ultimo; terrorizzato il marito dalle urla della moglie e dall’impossibilità di fare alcunché; intimorita la levatrice, la quale ben sapeva che se si presenta la testa bene, se si presenta il culetto male, se si presentano i piedi malissimo, ma se si presenta un piede solo e col bambino di traverso non ci sono praticamente speranze; tremante io che, pur essendo medico, avevo solo cognizioni teoriche della ginecologia, e quella era la prima volta che mi trovavo a tu per tu con una cosa così naturale e così terribile.
– Immagino.
– No, non puoi immaginarlo, tu non hai visto gli occhi di quella giovane che mi pregavano di porre fine a quella sofferenza che durava già da ore, e che lo facessi subito, in qualsiasi maniera, e sottolineo qualsiasi, purché cessasse il dolore. Tu non sei stato combattuto dal dubbio se condannare a morte la madre per salvare il bambino o se rischiare di ucciderli cercando di salvare entrambi. Tu non sai cosa significa infondere coraggio, mantenere lo sguardo lucido e la voce ferma quando le mani ti tremano e avresti voglia di scappare lontano.
– Davvero fu così dura?
– Durissima, ma fummo baciati dalla fortuna dei principianti, io, lei, e il bambino. Dopo ore di manovre, di spinte, di pressioni, quasi dei tentativi alla cieca, riuscii finalmente a sentire dentro l’altro piedino. Il parto podalico rimaneva rischioso, e di tentare di girarlo non me la sentivo, ma almeno era un’eventualità con la quale la levatrice s’era già imbattuta. Quando impugnai per la prima occasione il forcipe mi sembrò di tenere in mano uno strumento medievale di tortura. Comunque ce la facemmo a salvare la madre e non far soffocare il bambino. Verso le sette del mattino il suo pianto ebbe su tutti lo stesso effetto delle campane di Pasqua.
– Complimenti.
– Non c’è di che. Vedi bene che l’ispettore non poteva certo credere che un povero emigrante di ritorno dall’Australia fosse riuscito dove un’esperta levatrice s’era arresa, ma la sua riconoscenza era tale che mai avrebbe fatto qualcosa che potesse anche minimamente danneggiarmi.
– È vero, lui aveva ancora sua moglie e il suo bambino, tu avevi, come dire, saldato un debito. Avevate vinto tutti, cos’altro importava?
– Già. Vedo che cominci a capire come funzionano le cose qui.
Comunque il danno era fatto e la voce si sparse nel villaggio. Pur non conoscendo i motivi della sua venuta, era ormai chiaro che egli era un dottore, uno di quelli bravi, era un dottore di città! Se avessero conosciuto qualche suo ex collega forse avrebbero cambiato opinione, e magari sarebbero stati più prudenti nei loro giudizi.
A quel tempo non c’era ancora l’ambulatorio in Villa Grande. Ogni tanto veniva su un medico condotto in sella a un Galletto Guzzi e faceva il giro del paese per visitare gli anziani e i bambini. Le donne no, non gradivano, e gli uomini erano sempre fuori a lavorare. Quando gli capitava la fortuna di trovare un ammalato, magari a letto, allora tentava di prescrivere una cura, delle medicine, una terapia, tutte cose che i valligiani guardavano con sospetto, mentre accettavano con rassegnazione la malattia. Infatti si ricorreva a lui solamente nei casi disperati e dopo lunghe discussioni in famiglia: infezioni diffuse, fratture non ricomposte, avvelenamenti, broncopolmoniti irreversibili, emorragie imponenti, e tutto un campionario di accidenti per i quali lui non poteva far più nulla se non ordinare il ricovero urgente in ospedale, dal quale raramente tornavano. Per questo motivo in paese associavano la figura del medico a quella della morte, ed erano restii a seguirne i precetti e le raccomandazioni, per non parlare delle terapie.
Ma quel parto miracoloso aveva cambiato tutto, avevano finalmente un dottore che non ammazzava la gente! Fu difficile convincere i paesani che quel disperato che loro avevano salvato non aveva la minima intenzione di tornare a fare il medico, nemmeno per tutto l’oro del mondo, e che piuttosto se ne sarebbe andato. Comunque lì, di oro, tranne le fedi nuziali e qualche dente, non c’era manco l’ombra, perciò alla fine trovarono comunque un accordo. Per qualche piccolezza, un secchio di patate, un salame di capriolo, qualche bel porcino e roba simile, avrebbero accettato i suoi buoni consigli.
Il risultato fu che, dopo un po’, il medico condotto osservò una drastica riduzione degli infermi; non si presentavano quasi più quelle situazioni da ricovero immediato; talvolta arrivava a notare che se c’era qualche malattia, quella era già in fase regressiva, verso la guarigione; le tossi persistenti e cavernose erano praticamente sparite; capitava persino che il malato gli fornisse già delle utili indicazioni mediche, come per suggerirgli una terapia; comunque tutti, dal neonato al vegliardo, sembravano godere di uno stato di salute decisamente migliore di quello del circondario. Tutto ciò lo condusse a immaginare che il posto fosse eccezionalmente salubre, e lui fantasticò per un pezzo di andare alla ricerca di quella fonte miracolosa o di quella panacea capace di tali benefici effetti.
Poi venne aperto l’ambulatorio che portò due conseguenze: la prima è che quel medico condotto non ebbe più occasione di salire in paese, la seconda permise al matto di andare finalmente in pensione.
– Comunque mi capita ancora oggi che qualcuno dei vecchi venga a chiedermi un consiglio.
– E tu?
– Beh, una parola buona non si nega mai, e comunque io sarei tagliato fuori. La medicina è andata talmente avanti che ormai nemmeno il barelliere mi lascerebbero fare.
– Non lo so, non ne sarei tanto sicuro. Chi arriva a guarire la gente senza bisogno di pillole, punture, supposte e costosissimi esami, di sicuro non è l’ultimo di medici.
Sorrise a quel complimento. Sapeva di valere, ma sapeva anche che il valore non è dato dai soldi, dalla posizione, dal potere, tutti aspetti collaterali d’una visione egoistica della vita. Quel tipo di valore è come la carta moneta, buona solamente finché c’è una banca e un sistema che la garantisce. Caduti quelli diventa carta straccia. Così l’ossequio, i complimenti, il rispetto, la stima, la riverenza, sono fasulli se provengono da ipocriti che non ammirano la tua abilità, ma invidiano la tua posizione, e che, se ne avessero l’occasione, non ci penserebbero un minuto a scalzarti.
– Grazie, so per certo che le tue sono parole sincere.
– Ancora una cosa non m’è chiara, scusa se insisto, ma, perché “il matto”?
– Per ragione, e per prudenza. Cominciamo dalla prudenza. Se a qualcuno venisse in mente di fare delle domande, di ficcare il naso nella mia vita, potrei facilmente dare delle risposte incoerenti, fuorvianti, nel dialetto di qua, dato che ormai so parlare come loro, oppure non rispondere per nulla, affermare di non ricordare, in fondo sono o non matto?
– Beh, in effetti… diciamo che sei un matto abbastanza ragionevole.
– E poi, in fondo, c’hanno ragione, sono proprio matto.
– Ma quando mai!
– È vero. Già uno che va in montagna in giacchetta sportiva, pantaloni leggeri e mocassini all’ultima moda non è tanto a posto con la testa. Quando poi seppero che ero un dottore, una persona studiata, e che ero deciso a seppellirmi in quest’angolo tra le montagne, quando invece chi poteva se ne scappava via, allora si convinsero che ero veramente picchiatello. Non conoscendo niente della mia malattia, e nemmeno il motivo che m’aveva condotto il questa vallata, era abbastanza ovvio trovare il mio comportamento alquanto irrazionale.
– E tu?
– Io li assecondai, e mi sta pure bene, così posso fare un po’ quello che mi va.
– Tu sei un furbo di tre cotte, altro che matto.
– Mah, non saprei, forse siamo tutti matti…
– Immagino che anche le conseguenze delle tue improvvise amnesie abbiano contribuito non poco a confermare i loro sospetti.
– Meno di quello che pensi… meno di quello che pensi…
I piedi, quasi fossero addestrati a muoversi da soli, c’avevano portato davanti alla sua casa un po’ stramba. Un gatto color dell’ardesia ci trottò incontro e cominciò, coda ritta, a strofinare il fianco sui nostri pantaloni. Cercai di prenderlo per carezzarlo un po’, ma lui nemmeno si fece sfiorare e se la filò dietro alla casa.
– Vedi Walter, io della mia malattia non c’ho capito un granché, non so darle un nome, ma ho intuito… diciamo così… come funziona.
– E hai detto niente.
– T’ho raccontato del mio maldestro tentativo di suicidio. Ebbene di quel giorno, del seguente, e di quelle due notti da incubo, io ho una memoria vivissima, come se stessi rivivendo, oggi, adesso, ogni istante di quel calvario.
– Può capitare in caso di incidente, almeno così devo aver letto da qualche parte.
– Non è del tutto vero. Noi siamo programmati per avere paura del dolore, ma non per ricordarlo in maniera così vivida. E poi non rammento solo quello, ma anche tutti gli odori, i colori, e i rumori che mi circondavano. È come se in quei momenti la vita che ero intenzionato a spegnere si fosse accesa di una luce più brillante che mai, illuminando tutto ciò che noi sorvoliamo sbadatamente senza darci la pena di un minimo di attenzione.
Il matto osservò la sua casa, poi, lentamente, volse lo sguardo attorno a sé, contemplò il paese più in basso, le piccole finestre illuminate dall’interno, e poi i pascoli e le scure muraglie di abeti che li circondavano, e poi, verso Est, le cime delle montagne ancora illuminate dall’ultimo sole calante; ascoltò i suoni di quell’angolo di mondo, il verso tardivo d’un merlo, un muggito, dei campanacci in lontananza, una voce di donna che chiamava qualcuno, un figlio forse, e un latrato di cane, sempre quello, assieme al brusio di tante vite vicine; annusò gli odori, di sudore, il nostro ovviamente, di letame fresco, di pini che piangono resina, di fumo da legna bagnata, di stufato, di fieno e d’erba falciata; sentì sul collo il fresco della brezza serale, il calore della camicia spessa, la morsa inflessibile degli scarponi, la stanchezza nelle gambe, la gola secca, lo stomaco che reclamava il cibo; alla fine fissò lo sguardo su di me, con gli occhi che gli brillavano come quelli di un bambino.
– Walter, io ho trovato la cura per la mia malattia. Si chiama vita. Io dimentico solamente quando non sono vivo.
– Eh?
– Non fare quella faccia, sono matto, mica pazzo.
– No, è che non so se è più assurda la malattia o la cura.
– Perché dici assurda? Io ci sono arrivato dopo anni di riflessioni, e qui, specialmente d’inverno, di tempo per riflettere ce n’è a iosa.
– Ma non è una cura, tutti viviamo!
– Non dire scemenze. Vita è quando accetti una sfida, senti la fatica, cerchi, scopri, ti sorprendi, ridi, piangi, hai fame, ami, giochi, e, alla fine, ricordi tutto questo. Passar carte non è vita, contare soldi non è vita, calcolare vantaggi non è vita, ridere senza gioia non è vita, comprare oggetti non è vita, moderarsi non è vita, è tempo sprecato, ininfluente, cancellabile, ed è appunto ciò che il mio cervello faceva.
– Non ci posso credere…
– Neanch’io sulle prime, ma poi, analizzando gli episodi di amnesia, ho scoperto che si verificavano dopo periodi poco interessanti, diciamo pure noiosi, della mia esistenza. Ricordati che sono un medico, e anche se i miei metodi di indagine sono sorpassati, questi sono stati capillarmente applicati su un unico paziente: me.
Ecco spiegato tutto quel suo attivismo ininterrotto, comunque mai frenetico e mai ripetitivo. Il matto temeva che, annoiandosi, sarebbe stato preda di una delle sue crisi di amnesia, perciò faceva in modo di essere costantemente indaffarato in qualcosa di interessante, di nuovo, di particolare, di eccitante, come un eterno bambino. E se fosse questa la chiave della felicità?
– Non mi credi, eh?
– Sì, cioè no, volevo dire… è difficile da credere, è perlomeno strano.
– Lo so, te ne do atto, ma, secondo te perché mi sarei rifugiato qui se non stessi finalmente bene?
– E tu non hai mai sentito la mancanza di qualcuno o qualcosa in tutto questo tempo?
– Mai, credimi, questi sono stati i migliori anni della mia vita. Mi dispiacerà lasciarla, ma solamente un po’.
– Beh, speriamo non tanto presto, ti vedo in forma.
– Lascia stare quelle frasi fatte, ricordati che solo io so come sto.
– No, volevo dire che…
– Non fa niente, lascia perdere, qualche volta sono un po’ scorbutico, ho preso dalla montagna, ti prego di perdonarmi. Vieni, entra un momento, ti faccio vedere ancora una cosa e poi ti lascio libero.
Scostò la porta, mai chiusa a chiave, ed entrò per primo. Il lampo di un fiammifero e, poco dopo, ecco la fiamma giallognola di un lume a petrolio.
– Non hai l’elettricità?
– Ce l’ho, ce l’ho, ma a me piace la luce di una fiamma che arde, viva, vibrante, non quella di una asettica lampadina, troppo precisa per i miei gusti. Vieni, guarda, che vedi?
Era appunto ciò che avevo visto di sfuggita la prima volta che ero entrato in casa sua: pile e pile di fogli di carta, la maggior parte di questi riempiti da una grafia ordinata e minuta.
– Posso?
– Prego, non ho più segreti per te.
Presi un foglio a caso, m’avvicinai al lume e lessi. Era una specie di resoconto, qualcosa a mezzo tra un diario e un articolo di giornale. Non riuscivo a focalizzare né il periodo e né i luoghi descritti, ma il tutto era descritto abbastanza dettagliatamente, uno sforzo di precisione per il quale non riuscivo a intravedere lo scopo.
– Allora cosa vedi?
– Non saprei, sembra un memoriale molto accurato, quasi un’indagine di polizia. Cosa sei ora, una spia, un giornalista?
– Non hai capito niente. Quella che vedi è la mia vita da quando sono qui, ogni giorno, ogni minuto, ogni istante.
– Pazzesco!
– Forse, ma è parte della mia cura, è la prova che sto bene.
– In che senso?
– Te l’ho detto che di sera ho da fare, sempre. Ebbene, questo faccio, riporto sulla carta tutti gli avvenimenti della giornata. Mi metto qui, su questo tavolino e mi sforzo di ricordare, quindi scrivo il tutto su un foglio, o più fogli, dipende dalla giornata, senza fronzoli o slanci poetici, solo la verità: ciò che ho fatto, visto, udito, provato e pensato. Quando ho finito li metto da parte, dove capita, senza rileggere niente, e me ne vado a dormire.
– Va bene, ma a che ti serve?
– Servire, servire, che brutto verbo, moderno, sa di schiavitù.
– Diciamo allora, che te ne fai?
– Ecco, ora va meglio. Te lo spiego subito. Quando il tempo è infame, oppure c’è tanta di quella neve che arriva fino alle finestre e non c’è verso di uscire nemmeno per pisciare, allora tocca restare imbacuccati a casa aspettando che passi la buriana. Chi ha famiglia trova la maniera di passare il tempo, magari litigando. Io ho solo un gatto, un ruffiano di prima categoria che si presenta solamente quando ha fame.
– Ti senti solo?
– No, che diamine, ho solamente paura di annoiarmi, di cadere preda di una crisi e di perdere la presa con la realtà.
– È successo?
– Solamente una volta, tantissimo tempo fa, e da allora ho deciso di scrivere, tutto, sempre.
– Una faticaccia.
– Non farmi ridere. Tu, quando sei in ufficio, ogni giorno ti trovi a dover compilare decine di fogli, eppure lo trovi assolutamente normale, anche se ciò che scrivi non t’interessa minimamente.
– Effettivamente hai ragione, però mi pagano per farlo, e allora…
– Ti prego, lasciamo stare che è meglio per te. Volevi sapere che me ne faccio. Ecco, vengo qui, prendo un foglio a caso e lo leggo. In quello stesso istante io ricordo, rivivo nella memoria quella giornata, e ne sono felice, perché l’ho vissuta, e l’ho vissuta veramente perché la ricordo. Dimmi, tu puoi affermare di ricordare tutte le giornate, non pretendo di dieci anni fa, ma almeno dell’anno scorso?
Feci mente locale sapendo già che era uno sforzo inutile. M’apparvero, sfocati, dei compleanni, un pezzo del Natale, una litigata in ufficio, una festa in riva al mare e una bionda da paura, un cliente difficile, l’incidente, la partenza per le ferie, quel maledetto molare, poi più niente, solamente una serie di numeri indistinti e lontani. Crollai il capo.
– Vedi? Quanti giorni puoi dire di aver vissuto veramente l’altr’anno?
– Non saprei, a questo punto direi pochi.
– Ecco. T’ho raccontato tutto ciò non per vantarmi, sarebbe da idioti, ma unicamente per aprirti gli occhi, capisci? Rileggendo i miei resoconti ne rivivo gli eventi, le sensazioni, le emozioni, e ritrovo ogni volta il gusto della vita che, da medico, avevo smarrito.
– Bello.
– Lo è, deve esserlo, altrimenti che ci stiamo a fare qua? Vedi, sono più che sicuro che queste giornate te le ricorderai per parecchio, però esse fanno già parte del passato, mentre è il futuro che ti dovrebbe dar pensiero.
– In che senso?
– Perché potrebbe essere uguale all’anno scorso, qualche giornata passabile, magari pure eccitante, che ne so, un viaggio, una festa, una promozione, oppure dolorosa, bruciante, ma il resto? Una lunga serie di giorni grigi, inutili, vuoti, mai vissuti pienamente. Non vorrei che, una volta diventato un vecchio come me, ti volgessi indietro e scoprissi che ti sei accontentato delle briciole, che, tirate le somme, hai vissuto sì e no un mese, mentre per il resto del tempo hai dormito d’un sonno senza sogni, e intanto qualcuno ti usava come un utensile o un automa meccanico.
– Non c’ho mai pensato, però sarebbe terribile!
– Domani te ne tornerai in città e io non potrò più aiutarti. Però, tutto sommato, sei un bravo ragazzo, e a quarant’anni puoi avere ancora la forza per cambiare la tua vita. Cerca di non finire in quel tritacarne che ti vuole senza memoria e senza speranza, ma solamente gonfio di illusioni. Sei forte, puoi farcela anche da solo.
Non so perché, ma mi sentivo un groppo in gola e la vista mi si offuscava. Evidentemente avevo gli occhi lucidi. Pensai – da non credere, un uomo fatto che piange come un bambino! – e sperai che nella penombra non si notassero. Speranza vana perché mi sorrise e mi prese la mano.
– Bravo. Vedo bene che hai compreso.
– Ma… come posso fare?
– Come me. Vivi, scrivi, rileggi. Se casomai un giorno ti capitasse di rileggere qualche pagina e la trovassi straniera, cambia vita prima che sia troppo tardi, abbandona ogni orgoglio e scappa, costi quel che costi. L’orgoglio uccide.
– Cambiare vita… certo, e perché no? Lo farò, sì, se serve lo farò. Grazie.
– Aspetta, ti voglio fare un regalo.
Mi chiesi cosa mai volesse e potesse darmi, delle uova fresche, un po’ di formaggio, oppure una sua piccola opera intagliata. Invece prese una sedia e la accostò al tavolo, si sedette e avvicinò il lume, prese un foglio tra quelli che stavano sul piano, lo voltò e si mise a scrivere qualcosa sul retro ancora bianco. Il matto mi sorprendeva sempre. Alla fine ciò che mi mise in mano era quel semplice foglio di carta piegato in quattro.
– Ecco prendi, promettimi che lo leggerai quando te ne sarai partito, non prima. Sei stato un buon compagno per questo pezzetto della mia strada, hai dato nuovi colori alla mia vita, e io te ne rendo un pezzetto, giusto una pagina, ma è l’unica che ho di quei momenti, e non la riscriverò.
– Io… io… va bene, la leggerò a casa… promesso, grazie.
– Grazie a te, e adesso vai, altrimenti salti la cena. E, mi raccomando, attento ai digestivi della Valeria!
Feci un bel pezzo di sentiero prima che la smettesse di ridere. Un cigolio e un rumore sordo chiudevano, assieme alla porta, un capitolo della mia vita, ma ne aprivano un altro, uno per ogni giorno della mia nuova vita.
L’indomani partii, ma non prima di aver saldato il conto del matto all’emporio, una cifra ridicola, per lo più dovuta al continuo approvvigionamento di carta. Lasciai in cassa il doppio del suo debito, era il minimo che potessi fare, e già che c’ero acquistai una risma di fogli anch’io. Avevo ancora un paio di giorni di ferie e, appena tornato a casa, a mente ancora fresca, avrei messo su carta questa mia esperienza in montagna.
Ecco, l’ho fatto, ho appena finito di scrivere. Non sono sicuro di aver riportato tutto, perché era dura ricordare tutti gli avvenimenti di quei dieci giorni. Non ho riportato un arido resoconto esatto, ma l’ho romanzato un po’, giusto per renderne più gradevole la lettura. Ricordo che, tanti anni fa, a scuola andavo piuttosto bene in italiano e qualcuno mi suggerì di provare a scrivere. Devo ammettere che non è affatto spiacevole.
Adesso è quasi mezzanotte ed è ora di andare a letto. Domani mattina andrò in ufficio, vivrò la mia vita e, alla sera, la riporterò, ben dettagliata, su un foglio di carta, e così avanti per tutti i giorni a venire.
La prossima estate tornerò su in montagna, dal matto, per ringraziarlo di avermi aperto gli occhi, e gli mostrerò i giorni della vita, vissuta, vergata, memorabile, vera, mia, anche se lui ha scritto che…
No, no, bisogna sempre essere ottimisti!

– E dopo?
– Niente. Finisce così.
– Come così? Continua a leggere! Come va avanti?
– Non va avanti. Dopo non hai scritto altro!
– Ho scritto io quella roba?
– Sì.
– Non ci credo.
– Sì, l’hai fatto, quarant’anni fa.
– Non è possibile.
– Invece sì papà, l’hai scritta tu. Ecco, prendi queste pagine, leggile.
– Questa roba non è mia. Tu non sei mio figlio, non puoi essere mio figlio, e poi io non ho figli! Chi sei tu?
Un lungo sospiro fu la risposta. Nella casa di riposo, in quella saletta al pianterreno, per troppe volte a quella domanda era evidentemente seguita la risposta più ovvia, purtroppo anche più contestata. Il fascio di fogli vibrava, spietato testimone dell’insopprimibile tremito senile delle mani.
– Ma no che l’ho scritta questa storia, sembra un libro!
– Per forza, è scritto a macchina, la tua Lettera32, non ricordi?
– No. Non so scrivere a macchina.
Colui che non ricordava era rannicchiato in una poltrona color vino, finta pelle, scucita in qualche punto, mentre il suo interlocutore era seduto di fronte a lui, su una scomoda sedia di acciaio inossidabile e alluminio.
– Quando viene Armida?
– Domani papà, arriva domani.
La mamma si chiamava Elsa, ed era morta da otto anni. Da dove fosse saltato fuori quel nome era un mistero. Non mancava mai di chiedere dell’Armida, e ogni volta lei sarebbe arrivata l’indomani.
Passò un’infermiera che porse al vegliardo rannicchiato in poltrona un bicchierino di plastica con alcune pillole bianche.
– Ecco qua il mio giovanotto! Su, ecco la medicina per il cuore, la prenda subito, così guarisce presto, e domani saluta tutti e se ne va a casa.
Eccola, anche lei prometteva un domani che mai sarebbe arrivato, ma bisognava raccontargli queste fiabe, così almeno se ne stava buono.
– Sì, domani arriva l’Armida, mi porta da mangiare e andiamo a casa.
– Va bene papà, adesso prendi quelle pillole.
– Perché anche ieri sera hanno fatto gli asparagi, e a me non mi piacciono gli asparagi. Sempre gli asparagi fanno. La prossima volta non li mangio!
L’infermiera si chinò verso l’uomo sulla sedia. Badando di non farsi sentire dal vecchio in poltrona, sussurrò all’orecchio dell’altro.
– Qua asparagi mai, lo sa bene pure lei. Comunque non ci badi, fa sempre così…
– Lo so, lo so, non si preoccupi.
I due uomini restarono a fissarsi, ora soli, in quella saletta che dava sul giardino.
– Va bene papà, dopo andrò a dirgli che non facciano più gli asparagi.
– Quali asparagi?
Il vecchio in poltrona avvicinò al volto il fascicolo di fogli dattiloscritti e lesse con evidente fatica qualche riga. Fissava quei pezzi di carta come se perfidamente gli nascondessero qualcosa, o come se fossero uno scherzo che non afferrava. Attraverso le lenti di un paio di occhiali male inforcati, lo sguardo acquoso brancolava tra le parole per trovare un senso, una luce, un motivo. Dopo un po’, con un gesto lento e stanco, abbassò i fogli sulle ginocchia.
– Perché devo leggere questa roba? Non mi interessa, non ci capisco niente. E poi oggi non ho voglia di leggere.
Quel mazzo di fogli doveva essere saltato fuori da un vecchio armadio, in mezzo a fatture e cataloghi di aziende che forse non esistevano nemmeno più.
Suo padre, inspiegabilmente, non aveva mai parlato in famiglia di quella gita in montagna. Forse si vergognava di non aver messo in atto i suoi propositi di cambiamento, o magari, ormai preso dalla sua brillante attività, li considerava un’insignificante parentesi, un fatto accidentale assolutamente privo di interesse. Eppure era sorta l’assurda speranza che quelle parole, scritte in un momento così particolare della vita di suo padre, potessero risvegliare in lui dei ricordi, un barlume di lucidità. Era deprimente ogni volta far visita a un perfetto estraneo.
A quanto pare non era servito a nulla, e del resto anche il medico aveva detto di non farsi illusioni. La demenza era ormai irreversibile, ogni variazione sarebbe stata solamente in peggio. L’uomo sospirò, s’alzò dalla scomoda sedia in metallo e si riprese quei fogli.
– Beh, papà, adesso io dovrei andare. Fai il bravo mi raccomando.
– Sì, sì, farò il bravo, e poi il dottore mi sgrida. Lui ce l’ha con me. Lo sai vero?
– Va bene papà andrò a parlare col dottore, domani. Ciao.
– Ciao, ma… tu, chi sei? Io ti ho già visto da qualche parte…
Uscì dall’edificio e attraversò il giardino. Mentre percorreva il vialetto incontrò lo sguardo di una vecchia ficcata alla meglio in una poltroncina di vimini. La donna lo fissava accigliata, lo fulminava con gli occhi, quasi incolpasse lui e lui solo della sua pena di essere vecchia, di essere immobile, di essere sola, di essere dimenticata, forse di essere ancora viva. Quello sguardo lo mise a disagio e, nonostante il gradevole profumo di una cascata di gelsomini in fiore e della frescura ombrosa di quel vialetto tracciato di ghiaia, si sentì travolto dall’impazienza di uscire in strada. Quando si ritrovò sull’assolato marciapiede s’accorse che durante il tragitto nel vialetto aveva praticamente smesso di respirare. Tirò il fiato.
Teneva ancora i fogli in mano; li guardò, non sapendo che fare, quindi li infilò alla meglio nella cartelletta di cartone che s’era portato dietro. Stava per chiuderla quando qualcosa ne uscì, cadendo lentamente ai suoi piedi.
– Ah sì, quel foglietto. Beh, non penso che avrebbe fatto differenza…
Lo raccolse.
All’epoca, dopo averlo letto, suo padre, forse per scaramanzia o per pudore, l’aveva nuovamente piegato in quattro. Il foglio era rimasto così per quarant’anni, e adesso, ad aprirlo senza delicatezza, si sarebbe sicuramente strappato.
Anche se ne conosceva già il contenuto gli venne voglia di dare a quelle righe ancora un’ultima occhiata prima di seppellire il tutto in qualche cassetto.
Il vecchio montanaro aveva sicuramente una calligrafia d’altri tempi, regolare, minuta ma rotonda, molto elegante. L’uso della penna stilografica, del resto già quasi sorpassata a quei tempi, dava personalità a ogni lettera, come i crescendo e i diminuendo musicali, ben altro stile rispetto al tratto uniforme e monotono della penna a sfera.
Al tatto la carta era liscia, quasi lucida: il pennino doveva scorrere che era un piacere.
Per strada in quel momento non c’era nessuno. Era una zona residenziale di periferia relativamente tranquilla, l’ideale per una casa di riposo. S’incamminò lentamente, leggendo qualche paragrafo di quel cimelio di cronografia minima.

… sento dei passi. Arriva qualcuno, ma non aspetto nessuno oggi. Bussano. Non mi va d’andare a vedere chi è. Qua ho della buona musica, e poi ho fame. Bussano di nuovo. Sono curioso di sapere, ma mi piace ancora di più aspettare la sorpresa. Spero che entri. È entrato! Ma piano, ha paura di qualcosa, ma di che cosa? Lo sento camminare in casa, e tra un po’ sarà qui. Mi voglio divertire un po’. Preparo la merenda alla mia maniera. Eccolo! Sta sbirciando in cucina. Faccio finta di non averlo visto. Sta facendo tanto d’occhi. Ma guardalo, è vestito come un pagliaccio del circo. Ma ha la faccia buona. E preoccupata. Forse sta male. Sicuramente sta male, viene dalla città! Se non la smetto di fare lo scemo, tra un po’ la mascella gli si stacca e cade per terra. Lo saluto e lo invito a mangiare. Non scappa, è già qualcosa. Ma guarda com’è conciato, che colori, che roba. Non devo neppure insistere troppo…
… m’ha chiesto di accompagnarlo. Che grullo, non sa che sarà lui ad accompagnare me! Ha paura, di tutto, di farsi male, di non farcela, della vita. Ma non di me. No, non perché lui è di città, non si sente superiore. Si fida. È come un bambino che s’è perso. Ha veramente bisogno d’aiuto. Lo leggo nei suoi occhi…
… penso che domani lo farò sudare un po’. Vediamo se c’è qualcosa sotto quei vestiti di plastica. Fa fresco stasera…

L’uomo girò il foglio, piano, facendo attenzione a non lacerarlo sulle pieghe.
Sull’altra facciata c’erano poche righe. Lettere più grandi e leggermente ineguali palesavano una certa fretta, oppure tradivano un’emozione.

Walter, avrai ben capito quale giorno della mia vita t’ho regalato. Ora vedi di fare di tutta la tua vita un regalo, a te e, se puoi, anche a chi ti sarà vicino.
Io ho sprecato quasi trent’anni, mi sono ammalato, sono stato lì lì per ammazzarmi, prima di capire che la vanità e l’egoismo portano all’abitudine, al disgusto e all’infelicità. Si diventa prigionieri di sé stessi.
Con te mi sono aperto come con nessun altro, tranne il prete ovviamente, ma lui non conta, è morto. L’ho fatto affinché tu non avessi bisogno di ripercorrere il mio fallace sentiero prima di comprendere, troppo tardi, quale abbaglio è una vita mondana, o, come s’usa dire oggi, di successo.
Ma c’è ancora un altro motivo, molto umano e personale, in quanto è probabile che io non abbia più occasione di raccontare la mia storia a chicchessia. Dopotutto sono pur sempre un medico, e, come t’ho già detto, io so come sto. Non rattristarti amico mio, è nella natura delle persone dover partire prima o poi. Tu anzi dovresti essere invidioso, perché io ho vissuto questi ultimi anni con una pienezza senza pari, al punto che posso ben dire di andarmene sazio.
Giacché, nonostante queste mie parole, tu non riuscirai a capacitarti come ora io sia sereno, per consolarti desidero donarti qualcos’altro di unico, di intimo, di meravigliosamente inutile: il mio vero nome.
Se puoi, serba il segreto, non svenderlo per una risata tra amici, o per strappare una lacrima a qualche svenevole fanciulla. Fin quando lo terrai per te sarà come se io vivessi ancora, non con la carne, è ovvio, bensì nel ricordo di un’amicizia sincera. Da parte mia non avrò problemi a sparire, stavolta per sempre. Ci sono già un paio di persone fidate che, il giorno dopo della mia dipartita, daranno fuoco alla casa. Il mio corpo verrà sepolto nella terra, ma la mia persona avrà una pira funeraria invidiabile.
Tra l’altro, è una faccenda tutta da ridere.
Il mio nome è uno scherzo del destino, una perfida coincidenza. Gli stolti che credono agli oroscopi direbbero che è un segno degli dei, qualcosa di significativo e trascendente.
Fanfaluche!
Il caso non ha volontà propria, le cose succedono, e se sono assurde, pazienza, bisogna prenderla con filosofia. Quindi, quando ti ricorderai di me, fallo sorridendo.
Tuo,
Memo

L’uomo tornò a piegare il foglio, e questo tornò quasi da sé nel suo assetto quarantennale, come una molla che scatta.
Proseguendo lungo il marciapiede, semideserto a quell’ora del mattino inoltrato, era arrivato nei pressi di un alto olmo che svettava in quel piattume di monotone villette a schiera. Lo stormire delle sue piccole foglie mosse da un improvviso refolo attirò la sua attenzione e gettò il seme di un ragionamento abbastanza involuto, ma pur sempre comprensibile visto il suo stato d’animo abbastanza depresso.
Si trovò a figurarsi quell’albero come la vita di suo padre, o suo padre stesso.
Le foglie, migliaia, erano i giorni, i minuti, gli istanti della vita, una vita piena di successi. Fino a una decina di anni fa suo padre era un albero imponente le cui fronde erano la testimonianza della sua forza, l’attestazione del successo, la cronaca delle vittorie, e formavano una chioma impenetrabile di foglie che trasformavano in nobile vita ciò che le radici suggevano dal vile terreno.
Poi era arrivato una terribile tempesta; tutte le foglie erano cadute, qualche ramo s’era spezzato, e ora l’albero giaceva spoglio su una poltrona color rosso vino. A cosa serve un albero senza foglie? È ancora un albero oppure è solamente legna da ardere?
Tutte le foglie di suo padre erano volate via, per sempre dicevano i medici, e ora lui se ne stava lì, in quell’ospizio, senza passato, senza la cognizione di aver vissuto, proprio come capitò un tempo a quel suo disperato amico conosciuto in montagna. Era vita quella?
Sempre camminando si volse a osservare l’olmo ancora una volta. L’inverno era in agguato anche per quella pianta e l’avrebbe trasformata nella lugubre conferma della caducità di tutto ciò che vive. Ma… con un po’ di fortuna, l’albero avrebbe superato la stagione infausta, avrebbe messo su delle foglie giovani, una nuova chioma, incurante del fatto che anche quella era destinata a volare via.
Della sua tenace resistenza, di quella rinnovata energia e della successiva e inevitabile sconfitta, pur senza il conforto di una foglia rimasta sui rami, l’olmo averebbe conservato un segno, una testimonianza incancellabile: un anello.
L’albero allora riusciva in qualche suo modo a conservare memoria della sua tribolata esistenza, del gelo, della galaverna, della siccità, della tempesta?
Poiché suo padre nulla aveva conservato, né foglie, né anelli, allora egli, pur respirando, era meno vivo di un albero.
– Che brutta cosa perdere la memoria!
Stava camminando immerso in queste spiacevoli riflessioni quando un rumore assordante e un’improvvisa folata di vento lo colpirono come un pugno in pieno petto. Mancò poco che stramazzasse dallo spavento.
Realizzò, dopo un istante di sgomento, che il fragore era causato dall’ululato delle trombe di un autotreno e dal contemporaneo rumore di rotolamento dei suoi enormi pneumatici, mentre il vento era causato dal violento spostamento d’aria, dato che il pesante mezzo stava passando, a velocità sostenuta, a meno di mezzo metro dal suo naso.
Per lo spavento si lasciò sfuggire la cartella e il foglietto. Quest’ultimo fu trascinato via nella polvere, risucchiato dai vortici d’aria provocati dai veicoli che transitavano velocemente, e sparì.
Senza avvedersene aveva percorso tutta la via arrivando alla confluenza con la provinciale, trafficatissima come sempre. Ancora un passo sovrappensiero e addio. Solamente allora l’uomo ebbe piena consapevolezza dell’incessante rumore, della puzza di benzina e di catrame, del calore che emanava quel nastro d’asfalto, del vento che seguiva il passaggio dei veicoli più veloci, e del sudore freddo per lo scampato pericolo.
Raccolse da terra la cartelletta di cartone e tornò indietro lungo quella strada anonima e discreta, al sicuro dal fragore e dai pericoli di quel trafficatissimo asse viario. Non c’era da sbagliarsi; vedeva, in fondo, a poco più di cinquecento metri, l’edificio color crema dell’ospizio, e s’avviò in quella direzione. Era quasi giunto nei pressi della casa di riposo quando si bloccò interdetto e anche vagamente preoccupato. Scese dal marciapiede, raggiunse il centro della carreggiata, si guardò in giro, quindi raggiunse il marciapiede opposto e si mise a percorrerlo in su e in giù.
– Dove diavolo ho parcheggiato la macchina?
L’uomo pensò allora che la soluzione era provare con il telecomando della chiusura centralizzata. Quell’aggeggio aveva una discreta portata, e il biip biip di risposta gli avrebbe fatto scovare la sua automobile.
Mise la mano nella tasca destra dei pantaloni della tuta: niente. L’altra tasca: niente. Provò in tutte le tasche della giacca: niente.
– Sta a vedere che l’ho lasciato in auto…
Non restava che far mente locale cercando di ricordare cos’aveva fatto prima di arrivare lì. Ripercorrendo la mattinata gli sarebbe venuto in mente dove aveva parcheggiato. Era sicuro di non aver camminato molto per arrivare alla casa di riposo, ma non si ricordava più la strada che aveva percorso. Pensò di dover chiamare in ufficio, per avvisarli dell’imbarazzante contrattempo. Ma… neanche il telefonino trovava più.
– Calma, procediamo con calma. Dunque…
S’appoggiò al parafango di un’autovettura, chiuse gli occhi e cercò di visualizzare sé stesso e le sue azioni di quel giorno. S’era alzato, era andato al cesso, poi s’era lavato, sbarbato, vestito, sì, aveva scelto la tuta sportiva preferita, e poi, e poi… nebbia, fino a quando s’era trovato nella saletta che dà sul giardino.
Si sentì venir meno.
Se foste passati di lì in quel momento, per quella via semideserta di periferia, avreste potuto notare un uomo affranto seduto sul bordo del marciapiede, avreste potuto scorgere il suo sguardo smarrito, e pure le lacrime che gli rigavano il volto finendo col bagnare una cartelletta di cartone che stringeva in grembo. Se una rara compassione o una probabile curiosità vi avesse fatto avvicinare a quell’uomo, per domandare se gli servisse aiuto, se andava tutto bene, anche se era evidente che niente andava bene, non sareste riusciti a cavare un ragno dal buco in quanto egli riusciva solamente a biascicare ossessivamente poche parole, una frase inconcludente ed enigmatica, chiara solamente a lui.
– Il dottore me l’aveva detto di stare attento ai segnali, potrebbe essere ereditaria, l’aveva detto, è una possibilità, ma io non sono ancora così vecchio…
Dopo un po’ avreste lasciato perdere. L’uomo non sembrava malato, forse era ubriaco, e in tal caso la soluzione migliore è andarsene per i fatti propri e che se la sbrigasse qualcun altro. Così l’uomo se ne sarebbe rimasto lì a piangere sul marciapiede, tutto il giorno, e forse anche la notte, fino a quando?
Per sua fortuna un angelo apparve. Era bianco, alto, la chioma bionda e fluente, e accorse subito verso il pover’uomo. L’aiutò ad alzarsi da terra, gli asciugò le lacrime, gli fece una carezza, e con fare fintamente burbero gli parlò.
– Ah Walter, Walter, lo sa che non deve uscire, è pericoloso. L’abbiamo cercata dappertutto, e c’ha fatto prendere un bello spavento, a tutti quanti, sa? Ecco, adesso torniamo dentro che è ora di pranzo. Non ci faccia più di questi scherzi altrimenti la dovremo mettere al secondo piano, e allora niente più giardino! Adesso andiamo, che qui fa caldo, poi mi suda e prende un malanno. Ce l’ha la sua cartella? Ah, eccola. Ha scritto ancora qualcosa? Sì? Però non di notte, che mi disturba tutti, va bene? Bravo il nostro scrittore… Me le farà leggere le storie che scrive? No? Pazienza. Stia attento però a non perdere la sua cartella, perché lei se la dimentica sempre in giro e poi tocca a noi ribaltare tutto l’ospizio per trovarla. Su, forza Walter, andiamo!
– Sì, va bene, sì, vengo, ma io non sono così vecchio, vero?
– No Walter, lei non è vecchio.
L’infermiera prese l’uomo sottobraccio, gli sorrise, e con l’altra mano gli riavviò i radi capelli bianchi che ancora gli ornavano la sommità del capo, pochi ciuffi irti come l’erba d’inverno quando il cielo è di pietra e il vento è di ghiaccio, quando la primavera è così lontana che potrebbe anche non tornare mai più.

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