Chi ha paura del lupo cattivo?

Ci controllano, ci spiano, tutti, sempre, in ogni dove, e poi ci manovrano a loro piacere.
Ma chi?
Loro, sempre loro, i poteri forti, le banche, le corporation, i servizi segreti, le logge massoniche, le mafie, la FOX, i templari, gli alieni.
Sappiamo bene come agiscono.
Il primo traditore che fa la spia è lo smartphone che ci portiamo sempre appresso. Lui non solo traccia la nostra posizione, i nostri movimenti, con chi o cosa comunichiamo, ma pure ci espone alla rapacità di chi indaga su ciò che vorremmo restasse celato, le password e i dati bancari per esempio. Quanto sono carine, pratiche, allettanti tutte quelle app che ti permettono di usare i soldi che hai in tasca senza bisogno di mettere una mano in tasca! Ogni volta che paghiamo col telefonino, o che semplicemente accediamo a un servizio bancario tramite quello, i nostri dati, tutti i nostri dati, viaggiano per centinaia di chilometri, rimbalzano da un server all’altro, da un’antenna all’altra, fino al terminale del pizzicagnolo, il quale, ovviamente, dispone delle migliori apparecchiature High-Tech disponibili sul mercato in quanto a sicurezza.

Vado avanti?

Già che siamo in zona (dello smartphone, non del pizzicagnolo), parliamo un po’ delle vulnerabilità del dente blu, meglio noto come Bluetooth.
Suppongo che anche voi avete la buona abitudine di disattivare il Bluetooth quando non serve (il 90% del tempo). Ah no? Magari non sapete nemmeno che si può fare? E poi, dato che è così comodo (vuoi mettere la soddisfazione di passare da mentecatto che parla da solo per strada…), perché mai si dovrebbe disattivarlo?
Lasciare attivo il Bluetooth è come andarsene di casa e lasciare la porta d’ingresso spalancata. Esatto, ho detto proprio spalancata, perché agli eventuali malintenzionati non occorre alcuna chiave di accesso, è sufficiente che loro siano a tiro del vostro apparecchio, una distanza che si misura in metri, non centimetri, anzi, più moderno è lo smartphone più vulnerabile risulta.
A quel punto avete un bell’inserire codici, password, PIN, autenticazioni deboli, autenticazioni forti, autenticazioni così così, tutto inutile perché tutto diventa leggibile in chiaro per i malintenzionati, ma non basta, c’è la possibilità di inserirsi nelle comunicazioni tra i dispositivi, intercettare, alterare e manipolare arbitrariamente i dati scambiati. Potrebbe capitare che voi scriviate “Mi piaci da morire”, ma che sull’altro apparecchio appaia “Vorrei vederti morire” (scherzo, in realtà sarà molto peggio).

Vado avanti?

E come la mettiamo col 5G, quella tecnologia che sembra fatta apposta per controllare ogni istante della nostra vita?
La mettiamo esattamente come il 3G e il 4G, che possono fare le stesse cose, solo più lentamente e in volumi minori. Quindi già ci siete nell’inferno orwelliano che tanto vi spaventa, e, a quanto pare, vi ci trovate come piselli in un baccello (Stan Laurel mi perdoni).

Vado avanti?

Parliamo un po’ dell’ultima menata del Cashback, la furbata governativa, un’esca di pochi spiccioli purché si paghi con carta di credito o Bancomat. Lo sanno tutti che mediante il pagamento elettronico si possono tracciare i consumi, e tramite quelli anche le persone col fine di profilarne le abitudini. Mediante questo sistema è facile verificare a quali sirene il consumatore cede più facilmente, che tasti bisogna suonare per far vibrare l’impellenza di un acquisto, cosa viene percepito come bene e cosa come male. Stabiliti quei parametri sarà un gioco da ragazzi indirizzarci nelle scelte, telecomandarci verso stili di consumo, e di vita, più convenienti per il sistema che ci controlla, verso le banane Chiquita invece delle Dole, verso il pepe nero al posto di quello rosa, verso il sapone alla lavanda da preferire a quello al gelsomino, verso le stringhe piatte invece di quelle tonde, e così via…

Vado avanti?

Quando uscite di casa (e anche in casa se possedete dei device con videocamera) fate caso a quante telecamere di sorveglianza sembrano puntate su di voi, e non solamente per strada, ma anche nei centri commerciali. In ogni momento un occhio elettronico vi osserva, vi scruta, vi controlla.
Dicono che servono per la nostra sicurezza, dicono. Si dà il caso però che la tecnologia permetta (da tempo) l’identificazione facciale, e già qui è facile conoscere tutto dei vostri spostamenti, almeno quelli nelle zone urbanizzate (ma su questa limitazione non ci scommetterei). Oggi, oltre a un raffinatissimo riconoscimento somatico, si appressano nuove potenzialità biometriche, e le abbiamo già viste all’opera quando si è trattato di misurare la temperatura corporea di singole persone in mezzo alla folla. La miniaturizzazione dell’hardware e le accresciute potenzialità dei software promettono sviluppi interessanti, quali, per esempio, la valutazione emozionale, o le variazioni oculari e pupillari in funzione dell’interesse generato, tutti segnali che noi inviamo inconsciamente, ma che altri saprebbero scientemente utilizzare. Quindi, quando andate in giro cercate di mantenere sempre un sorriso ebete, li manderete in crisi.

Vado avanti?

Prima di procedere vorrei premettere che non ce l’ho con voi, e non vorrei che le prossime parole fossero percepite come un predicozzo. È una semplice presa d’atto.
Si dà il caso che è invalsa l’abitudine di spargere in pubblico molti aspetti della nostra vita che sarebbero dovuti rimanere “nostri”, e le arene nelle quali gettiamo i pezzi di noi in pasto alle belve si chiamano social medium.

Anch’io ne sono una vittima, seppur consapevole, e l’ho precisato bene nella pagina “Lunatico” di questo blog (in alto a sinistra). La mia presenza in una di queste piattaforme di discussione risale al 1997, ben sette anni prima che Facebook vedesse la sua prima alba, e perciò sono ben cosciente della pervasività di un social medium.
Mi piace il termine “medium”, dà l’idea di qualcosa che consente la comunicazione con un universo popolato da fantasmi, e proprio incorporei come quelli sono gli utenti che fanno piovere i loro strazianti lamenti dall’aldilà. Un vero peccato che nel loro mondo, che è anche il nostro, quei fantasmi siano fatti di carne e sangue, desideri e paure, dubbi amletici e granitiche certezze, solitudine e insofferenza, gioia e dolore, noia e ansia, cuore e cervello (ah no, talvolta il cervello latita…), insomma ci sono delle vite più o meno autentiche, e capita che si racconti in rete quello che neppure il più accanito analista saprebbe strapparci.
Badate bene, non ci si lancia in confessioni fiume, non compare nessun autofafé, non si incontra qualche novello Proust, facciamo invece come Pollicino, lasciamo dei sassolini al nostro passaggio, un like, un cuoricino, un commento sprezzante, una condivisione, una visione prolungata, una ricerca, tutti sassolini che, invece di riportarci a casa, indicherà all’Orco la strada per arrivare fino a noi. A quel punto saremo alla sua mercé, perché egli sa tutto di noi, meglio di noi, e potrà venderci come schiavi al mercato delle grandi offerte imperdibili di fine stagione.

Vado avanti?

Come non sospettare dei vaccini, un altro metodo di controllo totalizzante, il sistema migliore per rendere ipocondriaca tutta la popolazione in modo che essa non desideri altro che di essere curata con l’ultimo ritrovato della farmaceutica. I vaccini sono pericolosi? C’è chi afferma di sì, e più di qualcuno ritiene che tale procedimento ci renda meno resistenti alle malattie in genere, e perciò più dipendenti da entità sovrannazionali che a un certo punto potranno decidere della vita e della morte di ognuno di noi, siano esse l’emanazione di un potere politico oppure economico.
E c’è pure chi si è spinto oltre affermando che assieme al vaccino ci verrà inoculato una sorta di microchip microscopico, un diabolico affare che, oltre al controllo posizionale, sarebbe in grado di agire sul nostro stato di fisico e mentale, arrivando in casi estremi a sopprimerci. Finalmente avremo l’omicidio perfetto, alla faccia di tutti gli scrittori di gialli.
Non so a voi, ma a me viene in mente il film “Viaggio allucinante”, girato nel lontano 1966. Chissà che ne penserebbe oggi Isaac Asimov che da quella pellicola ne trasse un bel romanzo. Probabilmente, visto il tipo, si farebbe una grassa risata.

Vado avanti?
Vado avanti.

Arrivo (finalmente!) al nocciolo della questione, all’oggetto principale di quest’ironica geremiade, ovvero a ciò che farà sembrare (e in massima parte lo sono) ridicole le preoccupazioni che vi ho testé esposto.
Prendiamo in esame l’etichetta.
No, non mi riferisco al bon ton, a tutta quell’architettura di regole non scritte che la persona “educata” dovrebbe conoscere per non sfigurare in società, argomenti attuali come le tavolette d’argilla di Hammurabi. A ben altra etichetta mi riferisco, ossia quella pezzuola tessile che accompagna ogni capo di abbigliamento o altri oggetti a quello accessori.
Da qualche anno, accoppiata ai tagliandini che riportano la marca, la taglia, i materiali e le istruzioni di lavaggio, potreste trovare un’etichetta bianca che apparentemente non ha scopo. Quel talloncino contiene un oggetto denominato RFID.
Questo acronimo sta per Radio-frequency identification, identificazione tramite radiofrequenza per i non anglofoni.
Si tratta di una tecnologia che ha già qualche decennio di utilizzo alle spalle, dapprima, ovviamente, in ambito militare, e che poi ha trovato spazio anche in applicazioni civili, specialmente quando si trattava di stabilire una comunicazione tra apparecchiature senza necessità di una connessione fisica, per esempio sugli aeromobili, oggetti sui quali sportelli e connettori esterni sono da evitare.
Non passò molto tempo prima che venissero scovate delle applicazioni commerciali di largo consumo. Per primi si mossero i fornitori di carburante per autotrazione, fornendo gli erogatori delle pompe di un trasmettitore RFID, il quale si interfacciava con un transponder RFID dedicato installato sul bocchettone dell’automezzo. I due si parlavano intanto che l’utente stava facendo rifornimento, terminato il quale la pompa registrava l’erogato e prelevava dal conto corrente del cliente la somma corrispondente, senza necessità di personale, cassa, scontrini, monete, resto, ecc.
La miniaturizzazione ha fatto il resto, portando la tecnologia RFID nelle situazioni di ogni giorno, per aprire l’automobile, per pagare un biglietto del tram, per entrare in un parcheggio, per “timbrare” l’entrata e l’uscita al lavoro, per identificare gli animali, per la logistica, e anche in funzione antitaccheggio.
A quanto pare sarebbe proprio quest’ultima la funzione di quel talloncino che potremmo trovare assieme alle altre etichette. Ma sarà veramente cosi?
La maggior parte di quegli RFID sono del tipo passivo, nel senso che non dispongono di una batteria propria, bensì l’alimentazione per funzionare viene loro fornita direttamente via radio dal lettore o da un’altra apparecchiatura RFID attiva, ossia con batteria.
Il piccolo transponder che portiamo allegramente addosso è dotato di un microchip, niente di trascendentale s’intende, una semplice memoria non volatile, un oggettino che contiene un codice univoco di identificazione e che è in grado di registrare e mantenere i dati che gli vengono trasmessi, informazioni che può a sua volta ritrasmettere.
Le operazioni di lettura/scrittura sono rapidissime, meno di un decimo di secondo, e la portata di ricezione e trasmissione raggiunge i dieci metri.
Altri tipi di RFID hanno caratteristiche differenti. Per esempio la loro evoluzione verso la tecnologia NFC (Near Field Communication) utilizzata negli smartphone e nei documenti identificativi di ultima generazione limita la portata a una decina di centimetri, ciò nonostante già si presentano dei problemi di accessi indesiderati al device, tanto che già vengono consigliate delle custodie metalliche di protezione. Che bellezza!

Nelle due immagini sottostanti potete vedere un’etichetta RFID di qualche anno fa, ed era stata cucita su una polo assieme a quella standard. Si tratta di un oggetto anonimo, e nulla tradisce del suo scopo e delle sue potenzialità. Le sue dimensioni sono dettate solamente dall’estensione dell’antenna, e lo spessore è di soli 3 decimi di millimetro (0,3mm), equivalente allo spessore di due fogli di carta. Nell’immagine a sinistra la vedete come appare all’esterno, nell’immagine a destra potete ammirare cosa c’è dentro quell’uovo di Pasqua.

Qui sotto invece è visibile un’etichetta RFID dell’anno scorso.
Le dimensioni si sono ulteriormente ridotte, vi sono stampate alcune informazioni identificative, forse per non dare nell’occhio, anche se, bontà loro, su un angolo appare il simboletto che lo identifica come transponder RFID.

Purtroppo ho dovuto constatare che tale informazione non appare nella maggioranza dei talloncini equivalenti, quando, secondo me, il Garante per la Privacy dovrebbe renderla obbligatoria.
A proposito, sapete come il Garante definisce il tag RFID? Etichetta intelligente.
Tutta questa intelligenza mi spaventa, come i telefoni intelligenti, i semafori intelligenti, le lavatrici intelligenti, i televisori intelligenti, le automobili intelligenti, le vacanze intelligenti, le bombe intelligenti, tutti intelligenti, meno gli utilizzatori ovviamente.

Tiremm innanz.

Se a questo punto vi siete convinti che tutta questa manfrina si limita ai capi di abbigliamento, siete in errore.
Tenendo conto che all’industria un tag RFID costa una decina di centesimi, è logico aspettarsi che quegli aggeggi vengano piazzati un po’ dappertutto, sugli imballi di prodotti alimentari, sui contenitori di prodotti per la pulizia, sui giocattoli, sulle automobili, sulle copertine di libri e riviste, eccetera, oltre, ça va sans dire, in tutta l’elettronica di consumo.
Ora, fate un po’ conto di trovarvi in una casa permeata dalla domotica, con tanto di elettrodomestici “smart”. Potrebbe capitare che il cartone del latte parli con il frigorifero, che il flacone di ammorbidente dialoghi con la lavatrice, quello del brillantante con la lavastoviglie, quello del collutorio con lo spazzolino elettrico, e che la scatola di preservativi si scambi informazioni confidenziali con quella del Viagra. Che poi oggi esiste una cosa chiamata “internet delle cose”, per cui, se gli aggeggi “smart” che tenete in casa hanno anche la funzione wifi, tutte le vostre abitudini rischiano di finire in rete.
In buona sostanza sarete circondati da menti aliene che comunicano in una lingua a voi preclusa, e vi sarà pressoché ignoto il contenuto delle loro conversazioni, tranne quando il frigo vi redarguirà perché state facendo scadere lo yogurt, la lavatrice vi avviserà che non avete più a disposizione mutande pulite, la scatola di biscotti vi avviserà che per quel giorno avete assunto già abbastanza zuccheri, l’automobile rifiuterà di partire fino a quando non avrete controllato il livello del liquido lavavetri, e subirete la rampogna della casa per aver lasciato accese troppe luci in stanze vuote. Una suocera a tempo pieno.
Voi forse state pensando che stia scherzando, ma provate a viaggiare in auto senza aver allacciato le cinture di sicurezza e poi vediamo chi scherza.
Negli Stati Uniti (e dove sennò?) esistono dei supermercati senza casse, né manuali e né automatiche. Il cliente, col suo moderno smartphone adatto alla comunicazione con RFID, sfila tra le corsie, mette nel carrello ciò che gli serve (mi correggo, ciò che gli piace, perché ciò che gli servirebbe veramente è molto poco…), e quando ne ha abbastanza esce attraverso un gate apposito. In tutto quel tempo le interfacce RFID sono in costante comunicazione, e quando un prodotto viene lasciato cadere nel carrello il suo costo è automaticamente aggiunto a uno scontrino virtuale. All’uscita dal gate il conto viene chiuso e la cifra risultante prelevata dai fondi del cliente. Va da sé che è attiva una verifica in tempo reale della nostra solvibilità, nel senso che non c’è speranza di mettere nel carrello più oggetti di quanto potremmo permetterci, e qualora tentassimo di farlo verremmo immediatamente identificati e cacciati con ignominia.

Vabbè, direte voi, si tratta della solita americanata, ma con noi che c’azzecca?
Il fatto che, giunti a questo punto, mi tocchi anche spiegarvelo mi preoccupa un po’.
Facciamo un’ipotesi realistica di applicazione della tecnologia RFID.
Voi comprate un oggetto, una bella camicia, la quale, che lo sappiate o meno, è dotata di transpnder RFID passivo.
Andate alla cassa e pagate col bancomat o colla carta di credito (non oso pensare che siate così temerari da utilizzare lo smartphone).
Per quanto giurino che tutti fanno del loro meglio per garantire la vostra privacy, niente è più esposto dei vostri dati sensibili.
La carta di pagamento è associata a un’identità, ossia voi.
Alla cassa il tag RFID della camicia viene associato alla carta, e per conseguenza diretta a voi.
Da quel momento in poi, quando indosserete quella camicia e vi troverete a passare accanto a un interfaccia RFID, verrete da quella identificati, e non pensate che per gentilezza usino nome e cognome, al contrario, la vostra identità è un codice univoco, non tatuato sulla pelle come facevano i nazisti, ma non per questo meno indelebile. Per inciso, sappiate che le tecnologie di creazione e gestione di tali data base non sono “fantascienza” giacché, rispetto all’attuale stato dell’arte, la comunicazione e la registrazione utilizzano codici che potremmo tranquillamente definire “primitivi”, e inoltre badate che i circuiti bancari e coloro che dirigono la baracca economico/consumistica tengono a voi come il contadino tiene al suo tacchino.
Pur soprassedendo all’eventualità che siate in possesso di elettrodomestici “smart”, come per esempio una lavatrice che vi sgrida perché avete selezionato un programma inadatto per quella camicia, resta innegabile il fatto che con quella addosso (la camicia, non la lavatrice) prima o poi andrete in giro, e intendo non solo per boschi e foreste.
Potrebbe succedere che vi soffermiate un attimo dinnanzi a una vetrina di attrezzature subacquee. Se quella è dotata di interfaccia RFID vi identificherà (ripeto, basta un decimo di secondo), ma se la sosta si prolunga per più qualche minuto venite subito profilati come “appassionati di attività subacquea”.
Da quel giorno, quando navigherete in internet, vi arriveranno valanghe di banner in tema, ma non basta, ci saranno le pubblicità di località balneari all’uopo, le richieste delle associazioni amiche del mondo sottomarino, fino ad arrivare ai cartelloni stradali interattivi, tipo quelli già presenti in alcune località del Regno Unito. Magari siete lì che aspettate l’autobus, oppure state andando a prendere un caffè con gli amici, magari state facendo una gita in un’altra città, ovunque siate potrebbe darsi che la vostra identità venga riconosciuta da uno di quei cartelloni molto speciali, i quali sanno tutto ovviamente delle vostre preferenze e vi propongono un’offerta speciale di maschere e pinne in un punto vendita a poca distanza da dove vi trovate in quel momento.
Non oso nemmeno immaginare cosa potrebbe succedere se qualcuno si “divertisse” a riscrivere i dati presenti nella memoria non volatile del vostro RFID, rubandovi l’identità o affibbiandovene una diversa, magari quella di un poco di buono.
Comunque vedete bene che con la tecnologia RFID non avreste più quartiere, e tutto quello quello che voi, e ribadisco voi, farete, guarderete, comprerete, userete e butterete verrebbe puntualmente registrato per finalità che forse vanno oltre la speculazione economica.

Telecamere? Facebook? Telefonini? Pagamenti elettronici? Ridicoli, assolutamente ridicoli in confronto alla pervasività di questo strumento invisibile, ops, volevo dire “quasi” invisibile, perché se vi armaste di pazienza potreste scovare quei Giuda su ciò indossate, e per sconfiggere il temibile Moloch che richiede il sacrificio delle vostre identità non sono necessari raffinati strumenti tecnologici, bastano un paio di forbici.
Attenti al lupo.

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2 thoughts on “Chi ha paura del lupo cattivo?

    • Hola, presi contatto con la tecnologia RFID circa una trentina d’anni fa, per lo scambio dati degli aeromobili, e da allora ho avuto modo di seguirne l’evoluzione. La sua pervasività è preoccupante, ma lo è di più l’indifferenza con la quale vengono accettate le sue implicazioni trasparenti, un atteggiamento dovuto anche a scarsa informazione (o voglia di informarsi).
      Comunque controlla le etichette dei tuoi abiti, hai visto mai…
      Per quanto riguarda il vaccino, ti comunico che non vedo l’ora che venga il mio turno, e la discussione sulla validità della vaccinazione dovrebbe spostarsi su un altro piano, come già scrissi a suo tempo in un post intitolato “Sì, no, non so” che trovi qui: https://my3place.wordpress.com/2017/05/21/si-no-non-so/
      Ahoj
      🙂

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