Andiamo a pranzo fuori?

Che ci volete fare, siamo difficili.
Non è che si faccia tanto i raffinati, però incontriamo dei problemi quando si tratta di andare a mangiare fuori. Che poi, a dirla tutta, a noi basterebbe andare in giardino, sotto la pergola, per mangiare fuori, però non è la stessa cosa che scegliere su un menù e aspettare che ti servano, senza contare il fatto che poi piatti e cucina non li devi pulire, ci penserà qualcun altro.
Però, eh sì, c’è un però, il problema sta negli ingredienti.
Saprete già, e se non lo sapevate ci tocca svelarvi questa amara verità, che gran parte dei locali ai quali possono accedere i comuni mortali si affida anche a fornitori di alimenti già preparati, una sorta di catering, con i quali poi realizzano le loro variazioni sul tema a seconda della classe del ristorante e dell’estro dello chef. Ci è già capitato di fare simili rivelazioni a persone che immaginavano di mangiare dei prodotti caserecci, quando invece noi eravamo stati più volte testimoni del passaggio del camioncino di precotti e surgelati sullo stampo di quelli di BoFrost.
Non ci si venga poi a parlare di pesce, giacché a casa capita talvolta di pulirlo che ancora si muove in mano, mentre quelli dei ristoranti, animali quasi sempre di allevamento, hanno visto più ghiaccio di un pinguino del polo.
È logico che, avendo goduto, e godendo ancora, della possibilità di procacciarci dei prodotti genuini, e potendo vantare una certa nostra abilità nel prepararli secondo ricette tradizionali, ci troveremmo a mal partito in presenza di pietanze sicuramente belle da vedere ma poco soddisfacenti sul fronte organolettico. Con questo non intendiamo dire che non siano saporite, però a volte lo sono troppo, indice di un’abile lavorazione tesa al mascheramento di una materia prima non eccelsa.
Quindi, per non restare delusi, restiamo sul semplice, un fritto di calamari in un localino alla buona, un piatto di gnocchi con susini in un piccolo agriturismo, un giro di salumi e formaggi in una tipica osmica (pronuncia: osmizza).
Chi non abita in questo fazzoletto di terra tra l’Adriatico e il Carso difficilmente avrà avuto modo di rifocillare il corpo e lo spirito (soprattutto lo spirito) in questi ambienti tradizionali, la cui storia inizia all’epoca dei Franchi. Qualche secolo dopo fu l’Imperatore del Sacro Romano Impero, nonché Arciduca d’Austria, Giuseppe II d’Asburgo a regolamentare quest’attività locale, concedendo ufficialmente ai contadini la possibilità di offrire agli avventori il vino di loro produzione, più qualche rustico ma gustoso manicaretto per accompagnarlo. L’attività di questa attività “domestica” era limitata a otto giorni, numero che in sloveno fa osem, da cui il nome di osmica. Di quell’antichissima tradizione venne conservato anche l’uso di segnalare il posto di ristoro mediante una frasca sul portone di casa.
Dopo il boom economico, con i suoi bar, i suoi caffè, i suoi aperitivi, i suoi locali chic, le sue auto comprate a rate, la frequentazione delle osmice conobbe un netto calo, venendo relegata a ritrovo di personaggi folcloristici dediti a Bacco. Oggi invece, sull’onda del chilometro zero, questo tipo di locali trova una migliore accoglienza anche da parte dei “cittadini”, giovani soprattutto, anche se, mi duole confessarlo, solamente una frazione delle osmice ha conservato lo spirito genuino delle origini.
Tutto bene quindi? No, il problema sorge quando si deve tornare a casa.
Mi spiego. In osmica si mangia e si beve, vino ovviamente, e quando si beve lo si fa con entusiasmo e prodigalità, il che comporta inevitabilmente un largo superamento dei limiti consentiti per poter condurre un veicolo a motore (per la bicicletta dovrei controllare). A questo punto ci si pone dinnanzi un grave dilemma: vado in osmica e non bevo (e allora che ci vado a fare), o vado in osmica e non guido?
Da parte nostra è sempre la seconda opzione quella che preferiamo, ma si dà il caso che questi ameni ritovi si possano trovare a chilometri di distanza da casa nostra, e anche dalla città. Ciò comporta delle belle scarpinate su e giù per i boschi per ottenere l’agognato premio finale: sottogola, prosciutto crudo, pancetta, ombolo, gelatina (a Pasqua) e, ça va sans dire, il vino.
Nel filmato sottostante ho girato alcuni istanti della nostra ultima spedizione enogastronomica, spezzoni montati alla meno peggio, senza nemmeno badare all’ordine cronologico, però potrebbero fornire un indizio sul perché, quando ci capita di invitare qualche amico a “mangiare fuori”, la nostra proposta non ottiene mai un’adesione entusiastica.
Certo che la gente è strana…

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