Attenti al cane

Andando in giro si scopre sempre qualcosa di nuovo, e stavolta non c’è stato neppure bisogno di arrivare molto lontano, anzi è stato sufficiente andare in città.
Vivo in un paesino di una dozzina di case, in una valle che, seppur suggestiva, ne costringe le dimensioni e abitudini. La distanza con il centro della città più vicina non è eccessiva, poco meno di otto chilometri, ma un servizio di trasporto pubblico lassativo (fa cagare) la rende talvolta incolmabile se non ci si mette al volante della propria automobile. A questo punto però sorge un ulteriore problema, nel senso che le cattive abitudini logistiche dei cittadini, assommate a una struttura viaria difficile e a un’amministrazione comunale miope e inadeguata, rendono la percorrenza e il parcheggio una Via Crucis.
Comunque, una volta superante le difficoltà di spostamento, non rimango volentieri in città, in primo luogo a causa del caos, della cacofonia di rumori e del guazzabuglio di puzze varie, dai gas di scarico degli innumerevoli scarafaggi di latta e plastica agli effluvi di “saboido” (cattiva minestra riscaldata nel mio dialetto) emessi da locali più o meno caratteristici che prendono per il culo i turisti, in poche parole tutto quello che da me manca e non mi manca.
Ci sarebbe poi un altro aspetto che non mi trattiene in centro città, ovvero la perfetta inutilità dello stesso.
Mi spiego. Si suppone che chi vive in periferia, o fuori città, si rechi in centro per procacciarsi beni o servizi che presso la sua residenza sono assenti. Ebbene, nel mio caso capita troppo spesso che siano assenti anche in centro, e che di fronte alla diffusa insipienza commerciale sia costretto spostarmi in Friuli o nella vicina Slovenia per ottenere soddisfazione. Non è che manchino i punti vendita, ma quasi tutti offrono gli stessi prodotti scadenti (a caro prezzo, s’intende), e per di più ci si scontra con l’inesperienza e l’apatia di molti addetti alla vendita.

Allora, mi si chiederà, che ci sei andato a fare in centro?
Io? Niente. Però si dà il caso che a Rossana sia stata offerta la possibilità di esporre in una personale le sue opere tessili per due settimane, occasione che, ovviamente, non s’è fatta sfuggire. Così per parecchi giorni, nella mia veste di chauffer e assistente, ho avuto modo di annotare alcuni comportamenti tipici dei bipedi di città, e mi è stata rivelata la capillare diffusione di un oggetto che già conoscevo, però in un’altra veste. Si tratta del guinzaglio.
Immagino che anche voi avrete in mente una sorta di collare tondo, collegato a un cordino robusto, quest’ultimo talvolta dotato di un moderno avvolgicavo automatico, roba spaziale.
Invece ho scoperto che esistono anche i guinzagli rettangolari, lunghi più di una quindicina di centimetri e larghi circa la metà, con un cordino invisibile ma non meno resistente del cuoio.
È incredibile come questo oggetto riesca a indirizzare gli spostamenti, quasi la vita stessa, dell’essere al quale è legato, e apparentemente senza alcuna costrizione, come se fosse dotato di comandi telepatici. Alcuni lo tengono in mano, confortati da quel collegamento fisico, tattile, affettivo, altri non smettono di fissarlo, cercando risposte o almeno senso di appartenenza, altri ancora distribuiscono a voce o a tastiera brani di vita, ricevendo ordini o scuse, interrogativi o repliche, tracciati o tappe, e rispondendo di rimando o in differita.
Peggio di tutti stanno quelli che camminano parlando da soli, con il guinzaglio in tasca e il cordino che gli arriva direttamente al cervello attraverso l’orecchio, dei poveracci sui quali la natura si è accanita con malevolenza. Va da sé che, ogni volta, dopo la sorpresa per quel comportamento bizzarro, sorge un moto di compassione per la sorte di quello sventurato.
E allora, dopo la soddisfazione per lo stabiliante successo della mostra di Rossana, posso aggiungere anche il sottile piacere della scoperta, un evento sempre più improbabile in questo mondo così prevedibile.
Chi l’avrebbe mai detto…

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