Ecco un post che viaggia nel tempo, nel futuro e nel passato.
Se dei tempi che partono da ieri e vanno indietro è relativamente facile scrivere, preannunciare ciò che ha da venire è un’impresa che potrebbe apparire, a ragione, avventata e oziosa, pertanto non lo farò.
A questo punto vi starete chiedendo cosa diavolo c’entri il futuro allora. Diciamo che si tratta di una delle mie solite fosche previsioni, un orizzonte di nubi temporalesche che non promettono bene. Hanno cominciato a formarsi anni fa, quando le cosiddette piattaforme social hanno smesso la loro funzione aggregante e condivisiva per diventare il megafono di microcefali che sparano le loro castronerie come i fuochi artificiali a Capodanno, e in parallelo una sorta di mainstream gestito dai padroni del vapore. Così succede che si formi un “comune sentire” assolutamente distorto e dissociato dai fatti o dall’esperienza, ma che viene avvertito e accettato in quanto “vox populi, vox Dei”. In questo frangente, ogni opinione che in futuro (non tanto lontano) si discostasse in internet da quella magica visione, oppure che, suprema blasfemia, portasse delle prove inoppugnabili a supporto della contestazione, verrà opportunamente cassata o silenziata. I mezzi oggi già esistono: le mandrie di troll, le censure preventive, le querele temerarie, le occhiute linee guida, il traffic shaping, e altre diavolerie che saranno capaci di inventare.
Andando avanti di questo passo si potranno inserire solamente dei contenuti palesemente innocui, le ricette della nonna, i selfie al ristorante, le foto delle ferie, i gattini che giocano e i centrini all’uncinetto, oltre naturalmente a tesi talmente assurde da riuscire plausibili solamente al demente che le espone. Tutto ciò sarà immerso in una melma vischiosa di pubblicità mascherata da informazione e di messaggi allarmistici o rassicuranti a seconda del momento e dello scopo.
Per questi motivi avrei deciso di portarmi avanti col lavoro, di anticipare i tempi e inserire un post che ben si attaglia ai formati che si stanno profilando, ovvero scriverò di cibo e di cucina.
Si badi bene che questo articolo vi darà ben poche informazioni utili, e ogni riferimento al presente è assolutamente privo di malizia, perciò non lo si deve considerare come un suggerimento più o meno esplicito.
Come già dovreste sapere, io a casa non mangio bene, mangio benissimo, e ciò lo devo in primo luogo a Rossana, la quale sa preparare dei piatti a dir poco deliziosi (ma anch’io non me la cavo male…). La sua è una condizione infelice, una pena autoinflitta, in quanto è la prima ad amare la buona cucina, pertanto applica la massima cura nella scelta degli ingredienti e nella loro lavorazione, e infine del risultato finale è la prima e più severa giudice.
Andrebbe aggiunto che poniamo molta cura nella scelta della materia prima, niente di particolare o esotico s’intende, ma solamente prodotti freschi, di stagione, locali più che si può, e ciò che arriva nel piatto rispetta la tradizione multiculturale di queste terre.
Per questi motivi incontro molte difficoltà quando mi trovo a mangiare “fuori”, e talvolta il naso mi sconsiglia già all’esterno di varcare la soglia di un locale. Fate conto che nel raggio di una dozzina di chilometri da dove vivo (comprendendo anche una città di non piccole dimensioni) non sono molti i ristoranti e le trattorie che considero “accettabili”, meno di una decina, e i restanti locali sono presenti in una mia personalissima lista di proscrizione.
Ci sono però delle gradevolissime eccezioni, sia lontane che vicine, che in passato (eccolo il passato) m’hanno regalato sensazioni indimenticate, e di quelle voglio scrivere. Purtroppo, a causa della mia non più verde età, troppe di quelle felici situazioni sono irripetibili, essendo venuti a mancare in questi anni, per le cause più diverse, i luoghi e le persone, perciò non va prestato a questo articolo il benché minimo intento pubblicitario.
Veniamo quindi all’elenco.
Al primo posto ci va senz’ombra di dubbio la zuppa di pesce che ci venne servita in un locale di Santa Croce, La Grotta, un piatto eccezionale che non riuscirei a imitare nemmeno in cent’anni di tentativi. Vorrei aggiungere che di cose che escono dal mare ne so qualcosa, e che ne curo personalmente il reperimento, la pulizia e la preparazione, pertanto se dico era speciale potete fidarvi; un vero peccato che quel ristorante non esista più da tempo.
Durante i nostri viaggi in Europa c’è capitato di incontrare sapori nuovi, anche perché non temiamo l’ignoto, sia pur esso solamente gastronomico, e in genere la nostra curiosità è stata soddisfatta senza brutte sorprese. Però in qualche caso si sono verificati degli eventi eccezionali, l’incontro con dei piatti che hanno superato ampiamente l’asticella di quanto consideriamo “ottimo”, e che c’hanno fatto scoprire territori del gusto dei quali nemmeno supponevamo l’esistenza. Sto parlando dello “Xató” di Sitges, in Catalogna, un piatto tipico che più tipico non si può. Si può trovare anche nelle località limitrofe, e ognuna di quelle vanta una sua preparazione specifica.
Non è niente di elaborato, un piatto popolare tra i pescatori, come lo erano a Kontovel i fanclji z dušo (fritole col’anima). Si prepara versando una salsina composta da nocciole, mandorle, peperoncino, aglio, olio, sale e aceto su un letto di scarola, quindi si aggiungono dei pezzi di tonno, baccalà e acciughe, più delle olivette (rigorosamente con l’osso, attenzione!), si dà una veloce smucinatina (alla Giorgione) e si serve. Una sciccheria. Fin dal primo incontro è stato amore a prima vista, e se avremo la fortuna di ricapitare da quelle parti non ci faremo mancare una cenetta da “El Castell”.
Come si sarà capito, non vado a caccia di piatti elaborati e locali di lusso, ma talvolta l’estetica può contribuire favorevolmente, fino a diventare un ingrediente supplementare in grado di stregarci. Nel caso di Granada, dove già si mangia bene, è stata la particolare ambientazione di un posticino seminascosto a farci innamorare dei loro piatti, che in fin dei conti erano delle semplici tapas. Immaginatevi un stradicciola di El Albaicín, una sorta di piccolo canyon in mezzo a muri in pietra dai quali sbordano rami di aranci e limoni, un portoncino di ferro battuto, sei scalini di cotto per arrivare in un piccolo cortile acquattato sotto una pergola (carmen), isolati dalla strada e dal mondo, ecco, ci siete. Il posto si chiama “El Pozo”, e anche se molto probabilmente a Granada ci saranno dei locali migliori di quello, il cibo semplice in quell’ambiente così raccolto c’ha regalato sensazioni leggere e indimenticabili.
Una primavera di molti (troppi) anni fa, assieme ad alcuni amici, attraversammo Istria e Dalmazia in fuoristrada, utilizzando strade secondarie anche non asfaltate, arrivando fino a Zara. All’epoca non esistevano smartphone, internet e siti di prenotazione, anzi sospetto che in alcune zone non ci fosse nemmeno il telefono, perciò per mangiare e dormire si arrivava e si cercava al momento.
Una sera arrivammo nei pressi di Rovanjska, un paesino sul mare ai piedi della catena del Velebit. Trovate le stanze in una casetta sulla riva, chiedemmo dove fosse possibile mangiare un boccone. Giù non c’era niente, perciò risalimmo fino alla strada carrozzabile sul costone, dove infine scovammo una piccola trattoria con velleità da ristorante. Il menù era ridottissimo. Non ricordo cosa ordinarono i miei amici, ma io e Rossana ci facemmo tentare dagli scampi alla busara, sbertucciati perché secondo loro in quel locale non parevano attrezzati per quel livello di pietanze. Mal gliene incolse, perché dopo una mezz’oretta ci portarono un ovale che definire sontuoso sarebbe riduttivo. Gli scampi poi, da nassa, non da rete, (se non erro, ve l’ho già detto che me ne intendo), erano preparati come meglio non si poteva. Mossi a pietà, consentimmo ai nostri amici di fare qualche scarpetta nel sughetto. Fu una cenetta indimenticabile e per certi versi irripetibile, perché qualche anno dopo lì si sarebbe scatenato l’inferno della guerra, sconvolgendo persone, attività e tradizioni, e oggi magari quella trattoria è diventata uno sgargiante minimarket, un pretenzioso villino, un ristorante di lusso dove servono pesce surgelato perché i pescatori ormai sono spariti, o forse non è rimasto più niente.
Spariti pure i datteri, quelli che servivano in un modesto ristorante accanto al campeggio di Premantura/Promontore, la punta meridionale dell’Istria, cancellati dalla stupidità di coloro che hanno rovinato le scogliere con attrezzi meccanici per tirarne fuori a quintali, e tutto per accontentare le voglie di gente che manco capiva cos’aveva nel piatto, che se gli davi delle cozze era uguale.
Ci sarebbero altri posti, altri piatti, altri ricordi, più o meno remoti, più o meno importanti, come il Wiener Schnitzel e i buchteln a Vienna, la tartara a Praga, la cinta senese in Toscana, gli skipneki della Logarska Dolina, il paté en croute a Sélestat, lo speck a Dorf Tirol, i raviolini di Rivanazzano Terme, gli gnocchi coi susini a Mihele, la carne alla brace a Český Krumlov, i finferli a Peteano, senza voler contare quello che si mangiava a casa quand’ero ragazzo, cibi preparati con la cura di una tradizione semplice ma antica.
Panta rei scriveva Eraclito, e in effetti in questo fiume di sapori che scorre ogni giorno sulla mia tavola (a casa e talvolta fuori casa) sono passate molte emozioni, e tutte sono irripetibili, giacché cambiano gli ingredienti, l’ambiente, la predisposizione d’animo, il momento, però solamente alcune sono indimenticabili, stelle che hanno diffuso il loro splendore per il tempo di una percezione, di una forchettata, di una scarpetta. Come un lampo di luce lascia sulla nostra retina una temporanea impronta visibile anche se chiudiamo gli occhi, così quei piatti hanno fissato nella mia memoria dei ricordi quanto mai impalpabili, difficili da descrivere, forse anche illusori, comunque abbastanza radicati, tanto da costituire un severo metro di giudizio che talvolta mi conduce a essere troppo intransigente.
Quindi pensateci bene prima di invitarmi a pranzo o a cena, rischiate grosso.
