Motivi e motivetti

Ci son cose che capitano, così, all’improvviso, e poi non te ne liberi più.
Nel mio caso a fare un malizioso capolino nel flusso disordinato dei miei pensieri è stata una domanda, che poi ne conteneva un’altra: perché scrivo, e perché si scrive?
Non mi arrogo il diritto dell’originalità, un tale quesito è stato sicuramente posto da centinaia di illustri pensatori, e tutti costoro avranno espresso le loro conclusioni nella maniera più esaustiva possibile.
Il fatto che però io sia un emerito ignorante, ovvero che non abbia mai letto nemmeno una riga di tali auguste riflessioni, mi pone nella posizione privilegiata di chi si trova a esaminare per la prima volta qualcosa di nuovo e interessante.
Mi piace immaginare che anche qualcuno dei quattro gatti che passano ogni tanto da queste parti abbia una più o meno manifesta passione per la scrittura, e che colga l’occasione per porsi la medesima domanda, e prevedo che la risposta sarebbe agli antipodi di quanto state per leggere.
Comincerei col chiedermi in cosa consiste lo “scrivere”.
Verba volant, scripta manent, così recita l’antica locuzione latina, e immagino che più di qualcuno possa associare alla sua parola scritta un inconfessato desiderio di immortalità. Magari è così, ma in questo caso specifico avrebbe dovuto preferire la frase di Orazio, Non omnis moriar, ossia non morirò del tutto, però, mi si perdoni l’impertinenza, quanti di voi presumono di scrivere dei testi di tale levatura da rimanere imperituri?
Gli antichi romani erano gente pratica, per cui tutti gli accordi, da un prestito di pochi sesterzi a un codice che regolasse tutte le controversie, doveva essere nero su bianco affinché restasse immutabile, e non per i posteri ma per l’immediato. In realtà la parola scritta era considerata versione pedestre della “parola alata”, nella stessa maniera in cui oggi possiamo valutare un’immutabile fotografia rispetto al paesaggio cangiante e trascendentale che la tecnologia ha tentato di “immortalare”.
In quanto alla supposta fatuità della parola non scritta, io porterei gli esempi dell’Iliade e dell’Odissea. Prima di finire ingabbiate negli esametri di due poemi epici, le avventure degli achei a Troia e quelle del figlio di Itaca in giro per il mondo conosciuto furono tramandate in forma orale per secoli, e senza perdere un briciolo della loro forza drammatica, e anzi assumevano a ogni passaggio nuovo impatto immaginifico e succulenti dettagli.
Il buon Omero, sempre che sia esistito o che ce ne sia stato solamente uno, ha infuso uno sforzo notevole per raccogliere tutti quei racconti e trovare per loro un filo conduttore, e per di più in forma poetica, ma sono convinto che, essendo quasi totale l’analfabetismo nella sua epoca, le vicende di Ettore, di Achille e di Odisseo hanno continuato sempre a tenere banco in forma orale davanti attorno al focolare della gente comune. Del resto, mi si consenta la domanda maliziosa, quanti di voi hanno preferito godere della forma originale in esametri rispetto alle nostre attuali versioni “pop”?
Se ancora non vi basta, se ancora tenete qualche speranziella per il vostro lascito letterario, vi inviterei a considerare la caducità della carta. Lo so, voi state pensando ai libri di mille anni fa che ancora fanno la loro bella figura nei musei, e quindi la fantasia vi porta a immaginare un vostro libro che viene contemplato con ammirazione dai vostri propropropropropropropropropronipoti.
Niente di più illusorio.
La carta di allora veniva ricavata da fibre di canapa e lino, e solamente da poco più di un secolo viene utilizzata la cellulosa da legno, e oggi anche la stessa carta da riciclo, materiali che hanno reso questo materiale più economico e disponibile, ma anche più deperibile.
Umidità, polvere, inquinamento, inchiostri, sono tutti nemici della carta, la quale è destinata presto a patire l’inevitabile degrado e a finire in briciole, assieme a tutti i sogni di immortalità.
E tanto per non cedere alle moderne lusinghe dell’elettronica, anche la forma digitale è alquanto effimera, troppo dipendente dall’evoluzione tecnologica, la quale tende a rendere non solamente obsoleti, ma anche del tutto inutilizzabili i supporti fisici e la parte informatica a quelli collegata, trasformando una ponderosa opera letteraria in un’intraducibile serie di uni e di zeri, sempre che un’imprevista e violenta eruzione solare non decida di fare tabula rasa di questa babele di dati variamente memorizzati.
Bene, esaurita la premessa è ora che si arrivi al nocciolo della questione.
Scrivere.
Sì, ma cosa?
È ovvio che non mi riferisco a testi di ordine tecnico e utilitaristico. La descrizione di una ricetta di cucina oppure la redazione di un manuale di istruzioni devono, o almeno dovrebbero sottostare alle regole della scrittura, della grammatica, della sintassi e della punteggiatura, però si limitano all’esteriorità oggettiva e poco dicono dell’autore, al massimo quant’è stato esaustivo e corretto.
Già di un resoconto di un viaggio o di un’esperienza personale si può cercare di grattare la superficie descrittiva per scoprire se sotto c’è un tratto intimo e sincero, una sorta del tradimento di sé.
Il più delle volte sono i racconti, i saggi e le poesie a svelare la vera natura di chi scrive, come se la pagina fosse una sconfinata superficie piana, la scrittura il Sole, e il risultato dello scrivere è l’ombra nera come l’inchiostro che viene proiettata dalla figura dell’autore, la quale ci dice se egli è eretto o se all’opposto si fa minuscolo, se possiede uno spessore oppure se si tratta di un cartonato, se procede o se sta fermo, se crea in splendida solitudine oppure se si accoda alla moda.
Quando l’artista è grande abbastanza, ciò che scrive resta anche dopo la sua dipartita, perché egli non è stato solamente un’interferenza solida ai raggi solari, ma addirittura ha creato la luce stessa che l’illuminava, e l’ha fatto con una potenza tale da far diventare permanente la sua ombra al pari di quella degli sventurati che hanno lasciato un’ultima traccia scura e indelebile sulle pareti calcinate di Hiroshima.
Mi pare evidente che questo non è il mio caso, sarei più che presuntuoso, sarei pazzo solamente a vagheggiarlo, eppure non riesco a sottrarmi alla pressione della scrittura, il che mi conduce alla stesura di interminabili pipponi, oppure racconti che stanno fuori come un balcone, e, troppo spesso di quanto sarebbe auspicabile, anche dei testi che hanno la pretesa di essere annoverati come “poesia”.
Sarà capitato anche a voi, durante una passeggiata, di immergervi a tal punto nelle vostre riflessioni da perdere il senso del tempo e dello spazio, cosicché a un certo punto vi guardate attorno e per qualche attimo vi chiedete dove siete, dove state andando e perché. Quasi subito la coscienza riprende il sopravvento e tutto torna, memoria, obiettivi, programmi, logica.
Purtroppo per la domanda che è sbucata dal nulla nella mia mente non ho trovato subito la risposta, anche perché, ma l’ho capito solamente dopo, quest’ultima non è per nulla consolante, e quindi era logico evitarla.
Verrebbe da pensare che si scriva per vanità, e, almeno per quel mi riguarda, in parte è vero. Avrete di certo notato che sotto al nome del mio blog è riportata la frase “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, ovvero “Vanità delle vanità, tutto è vanità”, il che corrisponde a una confessione, come pure a un’amara considerazione.
Tutto sommato mi ritrovo abbastanza nelle parole che Karen Blixen fa pronunciare al generale Lowenhielm, e come quello si chiedeva se una rigida condotta morale e patriottica fosse giustificata dalle medaglie che sfoggiava sulla divisa, oppure se esistessero dei doveri superiori ai quali s’era sottratto per soddisfare l’umana vanità del plauso e del rispetto, così io mi chiedo se quanto scrivo sia il frutto di un’incessante ricerca di legittimazione condita dalla paura dell’anonimato. Però, mano a mano che gli anni passano, mi sto convincendo che tutti, e io per primo, siamo degli incerti agrimensori in cerca di verità e di ufficio, una figura emblematica che solamente chi conosce bene “Il castello” di Kafka può trasporre nella realtà di tutti i giorni.
Se riconoscere di essere malati è il primo passo verso la guarigione, ritengo che ammettere la propria immodestia sia altrettanto benefico, la si accetta, e ciò facendo la si può moderare. Nel mio caso ho sempre ribadito che quanto scrivo non è frutto di una preparazione adeguata, bensì sono le erbe spontanee di un prato poco bucolico e molto calpestato, sul quale si è rovesciata abbastanza pioggia da allagarlo ed è piombato abbastanza sole da bruciarlo, una superficie irregolare dove hanno trovato casa i semi occasionalmente trasportati dal vento e dagli uccelli.
La mia vanità esiste, però è quella che riservo a me stesso per aver mostrato il coraggio dei folli, quando mi sono abbandonato perinde ac cadaver a un’attività che la mia preparazione limitata alla tecnica avrebbe dovuto sconsigliarmi di intraprendere.
Quindi si torna alla domanda iniziale, ovvero perché si scrive?
La risposta è molto semplice: non penso di saperlo.
Attenzione, io ho già in mente alcuni indizi, però è proprio in questo momento, mentre sto pestando sulla tastiera, che sto cercando di dipanare la matassa. Fate conto che io adesso sia sdraiato su un metaforico divano dell’analista.
Secondo me il motivo principale ce lo fornisce il dolore, che non è quello fisiologico, o almeno non è dovuto a traumi esogeni, bensì è connaturato al nostro essere, anche se lo è in misura variabile, da quasi assente a insopportabile. Si tratta di un’intima pena che nessun medicinale può lenire, nessun chirurgo può estirpare, nessun tempo può smorzare, e in fin dei conti è talmente innata che neppure sapremmo farne a meno.
Descriverlo sarà un po’ difficile, e non perché io non sappia riconoscere le cause del mio dolore, ma perché quasi nulla so di tutti i patemi che conducono alla scrittura altre persone. Mi aiuterò con l’immaginazione, che non è fantasia, bensì è la capacità di estrarre una probabilità da una serie di indizi. Del resto l’incipit del romanzo “Anna Karenina” è illuminante, ovvero tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo. Premesso che a parer mio nessuna persona può dirsi felice (forse solo i santi o i pazzi), le varianti dell’infelicità sono pressoché infinite, e con quelle il dolore che di conseguenza comportano.

Fate attenzione a non confondere la sofferenza con il dolore. La prima è una compagna costante, una missina che ci divora dall’interno e che, fisica o meno, si comporta come una ragnatela che impedisce ogni possibilità di gioire. Il secondo va e viene, comunque arriva sempre inopportuno come una pittima per rinnovare le tinte scure che incupiscono il quadro della nostra vita, e per esigere il saldo di ogni debito morale che abbiamo contratto a causa dei nostri limiti. Ogni compromesso accettato o vissuto, ogni errore commesso per ignavia o per sventatezza, ogni contraddizione irrisolta o elusa, ogni occasione mancata o sprecata, ogni ingiustizia sopportata o ignorata, ogni gelosia sofferta o provocata, ogni paura immaginata o attesa, ogni peccato indotto o cercato, tutto forma una miniera inestinguibile nel nostro essere dalla quale il dolore cava ogni tanto un’amara pepita che ci obbliga a soppesare.

Quando si si rende conto della caducità del tutto, e di come non abbia alcun senso la frenesia di creare, edificare, celebrare, perché anche la pietra più dura del monumento più alto è destinata a sfarinarsi e sparire, allora quello si fa sentire, e anche se intimamente abbiamo accettato la provvisorietà del nostro stato, non possiamo non dolere alla vista di chi è cieco e brucia la sua vita come se fosse un fuoco eterno, quando invece è paglia.

E che dire della cattiveria miope che sembra dominare spesso le intenzioni nell’agire? Troppe volte vediamo soccombere il debole, troppe volte la prepotenza pesa come un macigno sulla bilancia dei rapporti umani, e troppe volte abbiamo distolto lo sguardo concludendo che in fondo non sono fatti nostri. Però la consapevolezza del gesto di facile menefreghismo rimane come un marchio nell’animo, la conta indelebile di quante volte abbiamo rinnegato la nostra umanità.

Per non parlare della domanda della domande, il grande perché. Tutta questa nebbia che avvolge il significato della vita e che ci fa scorgere solamente l’immediato, celando alla vista ogni possibile orizzonte e lasciando a ognuno di noi la scelta di immaginarlo spaventoso o ridente, oppure assente ingiustificato, a seconda di quanto credito si dà alle parole di chi afferma di detenere la verità assoluta. Sapere di non sapere va bene quando si discute di filosofia, però si tratta di un vuoto che fa male, l’horror vacui che la natura si preoccupa coscienziosamente di riempire e che noi, imitando quella, ci affanniamo a colmare con ogni sorta edificio mentale, dubbi, voglie, paure, speranze, ambizioni, sentimenti, significati, eccetera. Un vero peccato che quel vuoto si comporti esattamente come un buco nero, l’entità astronomica che tutto assorbe e dalla quale nulla può fuggire, nemmeno la luce. Così, dopo ogni umana supposizione gettata in quel vortice nero di dubbi, quello diventa più grande, più spaventoso, e se possibile ancora più vuoto.

Non aiuta nemmeno la consapevolezza dei propri limiti, e anche l’orgoglioso tentativo di andare oltre quelli frutta solamente un’effimera soddisfazione. Ogni successo, ogni premio, ogni apprezzamento, anche se frutto di onesta fatica, porta con sé la percezione che si sarebbe potuto far meglio, o che magari solamente la prossima volta sarà un momento perfetto, e inoltre ci si chiede se tutto è dovuto a piaggeria, ipocrisia, adulazione, pura fortuna, e soprattutto a quanta invidia ci troveremo a far fronte. Ciò contribuisce a contaminare ogni piacere, magari non subito, nel tempo, come un bel frutto che piano piano ammuffisce anche se lo trattiamo con tutti i riguardi possibili, e alla fine ci si ritrova dolenti a desiderare di rivivere l’ebbrezza di quel trionfo, ma con freschi e più rigogliosi allori.

C’è poi la croce di un futuro che si annuncia funesto, minaccioso per la sopravvivenza della nostra specie, angoscia intimamente connessa alla sorte personale, anche se così effimera in rapporto alle ere biologiche del pianeta.
Sono più che certo che termini come inquinamento, guerra, fame, malattie, catastrofi e simili non ci sono sconosciuti, anzi pare che siano i più gettonati nei notiziari e sui giornali. Qualcuno di quei numerosi cavalieri dell’Apocalisse sono di fresca nomina, ma non sono per questo motivo meno esiziali, e se un tempo l’umanità accettava con rassegnazione le stragi dovute alla fame, alle epidemie, ai conflitti, oggi ciò che definiamo il “Primo Mondo” manifesta una reazione parossistica nei riguardi dell’eventualità di un’ecatombe globale. Sarà perché siamo più informati, sarà perché siamo più deboli e viziati, sarà perché temiamo di perdere le briciole di benessere che ci sono state concesse, sarà per questi e altri motivi che, pur essendo la vita molto più lunga e sicura oggi (non per tutti s’intende…), mai come in questi tempi la morte è uno spauracchio che costantemente aleggia sulle nostre vite.
A voi non sarà di certo sfuggito il paradosso di un’umanità che conosce il pericolo e non fa nulla per evitarlo. In televisione vanno per la maggiore i film che trattano di invasioni aliene, di asteroidi assassini, di mortali specie mutanti, di aggressive intelligenze artificiali, di cataclismi astronomici, insomma di tutti i più insidiosi nemici della specie umana, meno quello più pericoloso di tutti: l’uomo.

Fa male osservare con quanta stupidità le persone conducono la loro vita, rilevare la montante incuria nei riguardi di ciò che ha un valore assoluto, percepire l’assenza di pensiero, l’apatia verso ogni cosa che non sia il proprio particolare, registrare una costante omologazione che consente solamente il ribellismo di facciata, capricci spacciati per originalità, provare smarrimento dinnanzi alla quasi totale assenza di domande fondamentali, e soprattutto figurarsi con orrore il tipo di mondo che aspetta le generazioni che verranno, sempre che vengano, perché di questo passo…
La goccia di veleno mortale arriva quando ci si rende conto che non si è del tutto innocenti, e che si è in parte complici accondiscendenti di questa rovinosa discesa negli inferi terrestri.

Anche ciò che dovrebbe rendere la vita un’avventura meravigliosa il più delle volte la trasforma in un cammino faticoso e poco interessante. Sto parlando dell’amore, quella sorta di motore ideale che “move il sole e l’altre stelle”. Quanti equivoci, quanti errori, quante delusioni, quanti drammi si nascondono dietro quella semplice parola!
Personalmente non so se esistono i colpi di fulmine o gli amori irresistibili ed eterni, devo fidarmi della parola altrui. Per contro ho contezza di storie travagliate, falsità e tradimenti, solitudine e noia, cattiveria e violenza, ipocrisia e indifferenza, tutte vicende ben lontane da ogni immagine stucchevole di quel sentimento.
Lontano da me ogni velleità di giudizio, ogni vicenda ha ragioni e processi che solamente chi c’è dentro può conoscere, però sono in parte convinto che il disagio nasca da una malsana idea dell’amore che ci viene propinata, come se fosse un valore assoluto e inalienabile, mentre non è così, almeno non sempre. La rabbia e l’insofferenza possono sorgere dall’impressione di essere stati defraudati, ovvero che non abbiamo ricevuto tutto l’amore che, in teoria, ci spetterebbe.
Quanto male fa vedere come le persone buttano alle ortiche la parte migliore di sé per inseguire un miraggio, mentre ciò che vanno cercando, anche se non perfetto, anche se tutto da capire, sta giusto accanto a loro.

Talvolta tra le righe fa capolino la delusione. Vi prego di non fraintendermi, la disillusione, l’insoddisfazione, il disinganno e la conseguente sfiducia fanno parte della vita, per certi versi formano quella corteccia che ci rende meno sensibili alle avversità, e purtroppo meno empatici.
Mi sto riferendo invece alla sensazione di inadeguatezza, il fondato sospetto che si stia deludendo su ogni fronte della propria esistenza, nei rapporti umani, nell’impegno personale, nello sviluppo delle proprie capacità, vere o presunte che siano, nell’onestà intellettuale, nella generosità verso l’altro, e anche nella capacità di godere appieno dei rari momenti di di gioia che la vita ci regala. In buona sostanza deludiamo gli altri, ma più di tutti deludiamo noi stessi. Quanto sconforto genera la sensazione d’impotenza, la certezza che, per quanto si faccia e si dica, il risultato sarà sempre appena passabile rispetto a quanto si sarebbe potuto fare e dire, e non c’è frusta che possa far risollevare i garretti di quel cavallo bolso al quale ci si sente dolorosamente vicini nello spirito.
È una sorta di perfido gioco degli specchi, uno riflette l’immagine retorica che si vorrebbe dare di sé, un altro rimanda gli aspetti esteriori che vengono percepiti dagli altri, un terzo, riservato al soggetto, scopre le debolezze connaturate e intime, è il terribile sguardo di Medusa al quale si può resistere solamente diventando insensibili come pietra, e infine l’ultimo che mostra la verità ultima, ovvero è vuoto.

Anche il dubbio è doloroso, può esserlo a tal punto da diventare insostenibile. Vero è che le persone con pochi dubbi sanno regolarsi in maniera più serena nelle faccende della vita. A questo servono le tradizioni, le usanze, i costumi le leggi morali e quelle istituzionali, i riti, i canoni, le chiese, le bandiere, la buona educazione, ossia quella sovrastruttura che in modalità più o meno pavloviana abbiamo fatto nostra e che con gentile solerzia ci mantiene sulla “retta via”.
La necessità di dover vagliare tutti gli aspetti di ogni scelta, ponderando vantaggi e svantaggi, verità e apparenza, sentimento e ragione, generosità e misura, io e non io, non sarebbe pratico e né garanzia di equità, troppo dipendente dallo stato d’animo, dal vissuto e dai nostri umanissimi limiti. Tra conseguenze, ripensamenti e scrupoli sarebbe una tortura, per chi la applica e per chi la subisce.
Purtroppo non sempre è possibile, e nemmeno auspicabile, ignorare i dubbi, e può capitare che essi siano irresolubili, che si accavallino, che incombano sulla testa del malcapitato come rocce sempre sul punto di franare e schiacciarlo. Emblematica è la figura del suicida, il quale non si toglie la vita perché quella è ormai insopportabile, bensì perché è diventato intollerabile il dubbio se uccidersi o meno.

Direi che potremmo fermarci qui, io ne ho abbastanza, e suppongo anche voi. Potrebbe capitare che scavando ancora io intercetti qualche tormento che avete saggiamente messo in disparte e celato. Come si dice, occhio non vede, cuore non duole, e giammai vorrei rovinarvi la giornata più di quanto lo stia già facendo.
A questo punto ho cercato di capire come mai il dolore possa essere un valido motivo per scrivere.
In realtà non lo è, cioè non si tratta di un motivo, ma di una necessità quasi fisiologica.
Che sia una fitta, un’algia, un bruciore, viene naturale concentrarsi verso il punto dolorante e tralasciare tutto il resto. Ma tale situazione non può prolungarsi all’infinito, si rischia di perdere il contatto con la realtà circostante, e inoltre un eccesso di attenzione dilata il problema, ne allarga i confini oltre il ragionevole, cannibalizza tutte le altre sensazioni, perciò delle contromisure s’impongono.
Fateci caso, alcuni comportamenti irragionevoli o malsani spesso nascono in seguito a una pena, un lutto, un abbandono, un fallimento, una delusione, e, come ho spiegato all’inizio di questo testo, trovo che lo scrivere sia appunto un’attività poco razionale e, aggiungo, non esattamente salubre.
Però serve.
Quando il dolore morde troppo, quando invade i nostri pensieri, quando diventa il principale interlocutore, quando la nostra pelle non riesce più a contenerlo, bisogna farlo uscire, e bisogna farlo con decisione e senza paura, perché alla luce forse si smorzeranno i toni più cupi, o almeno sapremo misurarlo. Dalla ferita che ci siamo autoinferti ne esce un rivolo nero, perché quello è il suo colore, e possiamo lasciare che si spanda attorno a noi, che si perda e che, se abbiamo molta fortuna, evapori un po’, oppure si può indirizzarlo, ordinarlo in lettere, parole, frasi, concetti, significati, in pratica ingabbiarlo in un testo sul quale riflettere e dal quale venire riflessi.
La scrittura diventa allora una sorta di salutare salasso che per un po’ ci libera dall’eccesso di quel “sangue nero”, e la fatica di tale pratica è già di per sé un diversivo.
Sono abbastanza certo che anche altre forme espressive sono influenzate dalla necessità di liberarsi del proprio dolore, ma per certi versi la scrittura è più analitica, più austera, più esigente, e sono solamente ventisei i colori a disposizione per comporre un quadro espressivo e comprensibile.
Va da sé che tutto questo discorso vale per me, ovvero risponde alla domanda che era salita a galla così inopinatamente, anche se è probabile che il mio non sia un caso isolato.
Non starò qui a raccontarvi qualcosa dei miei dolori, non avrebbe senso e non ne ho il diritto, anche se leggendo i miei scritti qualcosa trapela sempre. Chi mi conosce sa che rido assai poco, ma che non sono un musone, anzi faccio spesso ridere gli altri (anche involontariamente). Diciamo che nella scrittura ho trovato una faticosa forma di ginnastica interiore che allena la mente in previsione di un futuro che non mi appare roseo e che spero di riuscire a sopportare.
Per me è un buon motivo, almeno così credo, a prescindere dai risultati.
Quando invece si scrive per la fama, per passatempo, per esibizionismo, per imitazione, per sfoggio di cultura, per piaggeria, si fa della scrittura carne di porco, perché non sono motivi degni, sono dei motivetti, come quelli delle canzonette orecchiabili e ammiccanti.

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