In carrozza! – 3

Ecco, la minaccia si è materializzata, il racconto è (in)finito, e adesso attende che qualche temerario affronti le sue involute spire.
Il treno è ancora una volta scenario e coprotagonista, complice e avversario, costante e variabile, universo e cellula, nelle varie possibilità, contaminazioni e varianti alle quali si presta più o meno docilmente.
In questo testo si narra di un viaggio, un lungo viaggio, allo stato attuale il più lungo fattibile, e il percorso potrebbe regalare qualche sorpresa, o forse, all’opposto, potrebbero emergere dei déjà vu, ma in fondo sono sempre sensazioni inattese.
Il titolo non promette nulla di buono, ma ha una sua specifica ragion d’essere, anzi ne ha quattro.
Calvario.
Beh, la prima è facile, visto il periodo che stiamo attraversando direi che ci siamo. Potremmo facilmente supporre che io sia stato sollecitato in tal senso dai funesti bollettini che piovono come grandine sul raccolto quasi maturo, quei bilanci fallimentari per i quali dobbiamo ringraziare la peste cinese e l’insipienza umana. Mai tale ricorrenza religiosa è stata così partecipata e condivisa, mai così coincidente.
Vi confesso che questo racconto è stato per anni un pianeta dall’orbita alquanto ellittica attorno al sole della mia presunzione, nel senso che si alternavano il desiderio di scriverlo alla paura di scriverlo, ovvero un pendolo tra la colpevole vanità e la prudente rinuncia. A decidere per me è stata la quarantena, la detenzione domiciliare che ha “regalato” a tutti un sacco di ore vuote, e così mi sono trovato a pestare sulla mia vecchia tastiera IBM.
Vi confesso, è stato, come prevedevo, un calvario, con tutte quelle parole che non riuscivo ad afferrare e altre che si infilavano di soppiatto tra le righe, un testo che mi lievitava sotto le dita, incontenibile. Non si pensi che per me scrivere sia facile, è una fatica del diavolo, mi ruba la vita come se fosse una droga, e come una droga ne sono dipendente, in dosi sempre maggiori, e dato che sono io il pusher di me stesso non ho nemmeno remore o rimorsi di sorta.
Adesso tocca a voi, nel senso che anche leggerlo questo racconto sarà un calvario, un testo così pretenzioso e pedante, con tanti di quei periodi torrenziali che tagliano il fiato, e poi la punteggiatura, tutte quelle virgole che spezzano, incastrano, rimandano, includono, sottolineano, traslano, e sospendono, tanto che alla fine non si perde il filo, si perde il senno.
Per non parlare della trama poi, visioni ubriache di immodestia che si tengono assieme a malapena solamente in grazia alla tenacia del lettore.
A tal proposito sarei curioso di conoscere quanti di voi saranno così testardi da voler percorrere tutto il viaggio che ho qui sotto descritto, magari lasciandomi una testimonianza telegrafica nei commenti, e anche chi saggiamente valuterà che nella vita c’è di meglio da fare potrebbe indicarmi fino a quale riga ha messo a dura prova la sua pazienza, anche se già questa prefazione potrebbe rivelarsi un deterrente abbastanza efficace dal proseguire nella lettura.
Il quarto motivo che giustifica il titolo sta nell’oggetto del racconto, un viaggio in treno appunto, e non può esistere una tale esperienza, anzi è impossibile che avvenga se venissero a mancare quegli elementi fondamentali che sono le stazioni. Per ogni viaggio ce ne vogliono almeno due, una di arrivo e una di partenza, meglio se in ordine inverso.
Quindi in questo racconto ci sono le stazioni, ma, quando si dice il caso, pure nel Calvario ci sono le stazioni, e così il cerchio si chiude.

Racconto

Calvario

Potrebbe essere l’alba, o forse un respiro prima.
Dal finestrino intravedo appena i contorni della stazione, una piccola stazione, col marciapiede di opaca pietra giusto oltre il binario accanto a quello del mio treno. Il bordo d’una tettoia illuminata in controluce da timidi fanali forma un orizzonte capovolto di scure decorazioni rotondeggianti. Nelle intenzioni quella finitura avrebbe dovuto richiamare all’occhio l’immagine di una schiera di fiori, mentre ora invece sembra più la nera bordura barocca d’un velo vedovile, e la foschia dietro a quell’elaborato confine assomiglia troppo a strati sovrapposti di tulle. Guardo in basso, il binario, le sue rotaie, nette e lucide, quasi brillanti, lavate dall’umidità nella quale tutto sembra immerso, tranne l’interno della mia carrozza, e a tradirla è rimasto solamente l’odore d’animale bagnato che qualche cappello di feltro di coniglio ancora vagamente emana. Sotto quella pensilina sembra che non ci sia nessuno, perlomeno io non riesco a riconoscere eventuali presenze umane dalle volute di chiaroscuro che l’incerta foschia crea tra il marciapiede e la soprastante tettoia.
L’ora è antelucana, lo è fuori come lo è per questo treno, quindi ben pochi sono i viaggiatori che si sono trovati in tale piccolo pianeta rovesciato verso l’interno, anche questo senza un sole, perciò in penombra, e non riesco a distinguere molto di più di vaghe figure in attesa di partire. Le guardo, statue assonnate e ancora perse in qualche sogno che hanno dovuto interrompere troppo presto, forse intente anche loro nella contemplazione dell’ambigua scenografia, mentre il costante sibilo d’una fuga di vapore attraversa il pavimento della carrozza.
Fuori qualcosa è cambiato, non vedo più la stazione, ora è l’immagine d’un altra carrozza a occupare tutto l’universo visibile. Il suo interno è illuminato, lo so perché giusto di fronte a me è capitato un finestrino, un rettangolo quasi abbagliante per il contrasto con i colori terricoli dai quali emerge e il grigio scialbo come la luce lunare che lo sovrasta in alto, cioè il tetto della carrozza, una superficie vissuta che nemmeno il luccicore dell’umidità imperante riesce a distaccare dalle brume.
Il finestrino è quasi diviso a metà, orizzontalmente, da un sipario interno che è sceso per un tratto, quel tanto che basta per celare al mio sguardo le sorgenti d’una luminosità lattescente, artificiosa sì, ma non per questo meno irresistibile. Quel che resta di trasparente mi basta per distinguere qualcuno al di là del vetro, una persona, una donna, un volto. Anche lei guarda nella mia direzione, ma non sono certo che riesca veramente a vedermi. Forse è persa nei suoi pensieri, forse m’ha notato, forse il mio viso riflette un po’ di quella luce che s’irradia da quel sole squadrato, o forse no, magari sta solamente osservando uno specchio spento. Il destino ci ha posti di fronte, separati da pietre, vetro e acciaio, ma uniti in un momento che non ci aspettavamo e per un tempo che ancora non conosciamo; soltanto d’una cosa possiamo essere certi, cioè che quello stesso fato ci separerà assieme ai nostri treni che saranno avviati a prendere l’uno il verso opposto dell’altro. Niente può restare fermo all’infinito.
Ecco che l’immagine comincia a scorrere, con lentezza quasi insopportabile all’inizio, poi prende velocità, senza scossoni, ma con la promessa o la minaccia, dipende da come la si vede, di un’accelerazione prepotente. Il rettangolo luminescente fugge da me, viene sostituito da un altro, fratello ma non gemello al precedente, poi da un altro, sempre simile e perciò diverso, e poi un altro ancora, immagini effimere come fotogrammi d’una pellicola, impossibili da riconoscere se quella non viene bloccata su un fermo immagine, e altrettanto impossibile è, per me, fermare quella corsa.
Un momento, sono io che mi muovo o è l’altro treno a partire? L’inaspettato disorientamento m’imbarazza e preferisco distogliere lo sguardo da quello spettacolo quasi ipnotico. Rimango sorpreso nel notare che ora l’interno della mia carrozza non è più buio, come se, assieme a quelle di fuori che si sono sfilate tutte, anche l’oscurità avesse tolto il disturbo.
È vero, fuori l’atmosfera è mutata, il velo di foschia caliginosa s’è levato, e ora la giovane luce del giorno nuovo disegna ombre ancora morbide e sfumature colorate dove prima dominavano le gradazioni di grigio. Cerco fuori dal finestrino l’autore di questo rinnovato prodigio, ma il sole è ancora basso all’orizzonte, lo nasconde alla vista diretta un edificio a due piani di mattoni rossi, la stazione, senza dubbio.
Sembra diversa, e non solamente un po’ più grande. Ora scorgo una coppia di rotaie in più tra me e il marciapiede del primo binario, e quella piattaforma non è segnata dalle fughe della pavimentazione in pietra, è invece liscia, nera di bitume steso da poco tempo. Cerco la tettoia decorata, non c’è, al suo posto una lucida lamiera zincata aspetta che i raggi solari le diano fuoco come se fosse fosforo, per abbagliare le rondini che già riempiono l’aria di striduli richiami.
Al posto dei fantasmi che m’era parso di scorgere prima, ora riesco a distinguere delle figure umane, ancora poche a dir la verità, e non so se aspettano un treno, aspettano qualcuno, aspettano di decidersi, però ci sono, le vedo, e se mi metto più vicino al finestrino sono certo che loro possono vedere me.
Il fatto è che forse non vogliono. C’è chi fissa con attenzione una bacheca, l’orario m’arrischio a supporre, chi legge svogliatamente un quotidiano, lo si vede da come lo tiene e come lascia che la carta secca e sottile si spiegazzi tra le sue mani, c’è chi si sporge con cautela dal bordo del marciapiede e scruta il corso delle rotaie, quasi sperando di scoprire un errore nel principio asintotico che regola la prospettiva ottica del suo binario, oppure conta le traversine per valutare da sé, a seconda del numero di quelle che riesce a distinguere, lo stato di salute dei suoi occhi, c’è chi s’è fermato accanto a una recinzione in cemento che si stacca dall’edificio in mattoni, o vi s’appoggia senza curarsi troppo se quella sia netta o sporca, magari per fumarsi una sigaretta o per stare un po’ coi suoi pensieri, e quella grezza cancellata, barriera valicabile senza troppo sforzo ma socialmente insormontabile, è un confine più netto della Grande Muraglia, una demarcazione tra il mondo di fuori e la civiltà ferroviaria, intercomunicanti solo tramite gli accessi consentiti dalle norme.
Nemmeno i miei compagni di viaggio sembrano incuriositi dalla mia presenza, e non vedo perché dovrebbero esserlo, in fondo neppure io lo sono di loro. Eppure dovremmo aver condiviso questo spazio chiuso già da un po’, e si suppone che, per ammazzare il tedio d’un tempo trascorso in attesa di non si sa che cosa, niente sia più pratico ed economico della curiosità. L’evidenza mi dimostra che sbaglio, perciò torno a rivolgere la mia attenzione verso l’edificio della stazione, per vedere se qualcosa è cambiato in quello sparuto consorzio di mattinieri viaggiatori.
Qualcosa è cambiato, più nulla scorgo di quel che sta sul primo marciapiede. Si rassicuri il lettore, non ho perso il bene della vista, ma delle persone che lì stavano ora mi è consentito solamente presumere la loro presenza o la loro assenza, dato che una serie di carrozze grigie s’è interposta tra me e la banchina del primo binario, quindi io non posso sapere se quelle persone sono ancora lì, se sono salite su quel treno o se magari sono fuggite all’arrivo dello stesso, spaventate come lo furono gli ingenui spettatori durante la proiezione de “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, uno dei primi cortometraggi dei fratelli Lumière. La situazione appare ancora più interessante quando cerco di riportare alla mente l’immagine di quelle persone che fino a pochi istanti fa scorgevo su quella piattaforma, mentre ora, per un imprevisto della vita, ci sono ancora e non ci sono più, se ci sono come sono, se non ci sono dove sono, come un piccolo e accidentale gruppo di gatti di Schrödinger, e mi verrebbe di richiamarli come si fa con i mici, giusto per vedere se magari uno di quelli sguscia da sotto una carrozza, tra le rotaie e i carrelli.
Che idea stupida!
Quindi, accantonata per il momento la questione, osservo un po’ meglio gli artefici di quel repentino cambio di prospettiva, ossia le carrozze che stanno tra me e il fabbricato.
La prima impressione è interlocutoria, sembrano dei giganteschi blocchi di ardesia destinati alla costruzione d’una ciclopica fortificazione, e nemmeno i regolari finestrini rettangolari riescono a scacciare quella gravosa immagine, anzi mi pare che da quelli potrebbero spuntare le bocche da fuoco d’ipotetici difensori, una suggestione rafforzata da quel traverso metallico che le divide orizzontalmente come una sbarra antintrusione.
Basta un niente per cambiare il mondo, è sufficiente che una mano afferri una maniglia per tirarla con forza verso il basso, facendo scorrere la metà superiore del finestrino fino a pareggiare quella inferiore, e poi prima un braccio, quindi una zazzera corvina, infine un volto giovane e sbarazzino, uno sguardo verso la massicciata, uno verso la direzione e il verso di quella che sarà prevedibile la marcia, uno verso il tuo treno, uno verso la tua carrozza, uno verso di me, un sorriso e un gesto di saluto con la mano che ancora se ne sta al riparo all’interno, disinvolta ma prudente. Una ragazza.
Allora anch’io afferro la maniglia del mio finestrino e l’abbasso fin dove me lo consentono le corsie di scorrimento. L’aria fuori è piacevolmente fresca, niente a che vedere con l’odore vagamente stantio che regna nella carrozza, impressione accentuata dall’aspetto anodino di quanto sta all’interno a causa delle lampade a fluorescenza tenute, per abitudine o per ordini superiori, ancora accese.
Aspiro una bella boccata d’aria, quindi metto fuori la testa e metà torace, mi sbraccio e le dico qualcosa, qualcosa di talmente banale che non faccio nemmeno in tempo a ricordare, un saluto presumo, un complimento magari, una domanda sul suo viaggio è possibile, però lei non riesce a sentirmi, me ne accorgo giacché nemmeno io riesco a udirla. Qualcosa di quel che sta dicendo lo comprendo guardando le sue labbra e interpretando i gesti eloquenti, comunque è poco, e forse tutt’altro.
Allora parlo più forte, quasi urlo, ma il frastuono della stazione mi sovrasta, ci sovrasta, uno sferragliante treno merci in manovra poco lontano sul binario che ci divide, il lungo fischio d’un locomotore impaziente, l’annuncio d’un ritardo, un altro d’una partenza, e il reciproco vociare dell’umanità circostante.
Ecco, finalmente silenzio, però è solo un momento di pace, troppo breve per approfittarne, il capostazione ha già alzato la paletta, il segnale verde per i macchinisti, e ora accompagna il gesto col suono acuto e vibrante del suo fischietto. Tutto è finito, con me che io osservo ancora per qualche attimo quel finestrino che s’allontana, ma lei non compare più, e io tiro di nuovo su il mio, quasi pentito d’aver immaginato di trasgredire al monito che su quello è impresso con lettere di luce: guardare ma non toccare.
Chissà se anche altre persone si sono accorte di lei e di quel collegamento purtroppo incompiuto, di quelle nostre frasi malintese, aeroplanini di carta dal volo breve e incerto che si sono posati malamente sulle traversine imbiancate di calce del binario che ci divideva, però, ma a quanto pare, tutti avevano altro da fare.
È incredibile, la mia carrozza è quasi piena, e non mi capacito di come non mi sia accorto prima della loro presenza, e nemmeno di quando e perché siano saliti. C’è chi sta cercando il posto che ha prenotato, chi sta sbuffando nel sistemare un voluminoso bagaglio sulla cappelliera in alluminio sopra il suo sedile, chi va su e giù per vedere se ci sono dei posti ancora liberi ma affiancati, chi discute di lavoro col collega che gli sta di fronte, chi chiede informazioni perché teme d’essere salito sul treno sbagliato, chi consulta l’orario stampato e controlla il suo orologio, e poi viceversa, chi si toglie una giacca pesante perché ha caldo, chi va esplorando l’interno delle sua tasche per trovare il biglietto, chi mangia, con impossibile discrezione, dei biscotti secchi, chi, più apprensivo, già raccoglie le sue cose e si prepara per scendere, e sembra che nessuno abbia tempo per nessuno, tanto meno per un futile saluto da rivolgere al volo verso una ragazzina impertinente.
Guardo i volti di chi divide con me questa carrozza, volti sconosciuti eppure vagamente familiari, come se appartenessero a persone colle quali mi sono già imbattuto tempo addietro, incroci casuali o fugaci, comunque mai così incisivi da lasciare un segno netto nella memoria, nella mia quanto meno, però d’una cosa sono certo: non amano essere fissati. Mi chiedo cosa temano, forse d’essere riconosciuti?
Si dà il caso che io sia una persona pacifica, riluttante a mettere in imbarazzo gli altri, e che anzi provi io stesso imbarazzo quando qualcuno compie un’azione riprovevole o inappropriata, così distolgo lo guardo e torno a concentrarmi sul finestrino.
Trovo che la stazione sia molto più grande ora, un paio di lunghe banchine stanno tra la mia carrozza e il fabbricato viaggiatori, e proprio il marciapiede accanto al mio binario è abbastanza affollato. Una larga pensilina in cemento poggia su colonne quasi completamente rivestite di marmo sui quattro lati, le quali spuntano dall’asfalto d’un marciapiede alquanto vissuto.
Non solamente persone su quella superficie, ma anche massicce panche in pietra, però questa meno nobile di quella delle colonne, larghi espositori verticali con rutilanti manifesti pubblicitari oppure con dettagliati prospetti delle partenze e degli arrivi, rigorosi nell’intenzione, trascurati nella realtà, poi contenitori per l’immondizia strabocchevoli di tutti gli scarti della società dei consumi, e, qualora si presentasse la necessità di rimpinguare quei ricettacoli, ecco pronti alcuni distributori automatici di spuntini preconfezionati e di bibite gassate in lattina.
La maggior parte della gente sta in piedi, ferma accanto al suo bagaglio, grande o piccolo che sia, e chi si muove con passi misurati su e giù per il marciapiede, magari seguendo per gioco le sbiadite linee gialle o azzurre dipinte sull’asfalto, per una strana nostalgia circoscritta alla stazione finisce col ritornare al punto dal quale s’era mosso.
Le ombre delle pensiline si disegnano nette giusto fuori dalle banchine, perciò il sole dev’essere alto nel cielo e, a guardare com’è acconciato chi sta fuori, probabilmente fa abbastanza caldo, però all’interno della carrozza la temperatura è più che accettabile, forse persino un filo troppo fresca, indizio indiscutibile d’un sistema di climatizzazione molto efficiente. Del resto l’odore è quello, ossia d’aria riciclata, non sgradevole s’intende, ciò non sarebbe ammissibile, ma al naso arriva un sentore di pungente secchezza, un po’ come d’ammoniaca, percezione che quasi sempre palesa tale moderna sofisticazione.
Ogni tanto giungono al mio orecchio alcuni deboli cigolii o dei corti borbottamenti di lamiera, e dalla loro provenienza ipotizzo che si tratti del metallo battuto dal sole, l’acciaio che cerca, come farebbe un bagnante in spiaggia a quest’ora, una sistemazione sopportabile. Comunque, a meno d’uscire dalla carrozza, operazione che mai m’arrischierei a compiere, è impossibile che la mia conoscenza vada molto oltre a ciò che riesco a percepire attraverso il cristallo del mio finestrino; solo una piccola feritoia in alto è apribile, a compasso verso l’interno, e per quella sorta di vasistas è necessaria una chiave speciale che solamente il capotreno, o un meccanico, possiede, perciò tutto arriva mediato, ovattato, filtrato e governato da artifizi più o meno complessi, ovvero le irrinunciabili comodità.
Vorrei chiedere a chi sta fuori dove siamo, com’è il posto, come ci si trovano, magari potrei ricevere qualche utile consiglio, ma non si può, loro sono fuori e io sono dentro, lo schema non consente queste facezie, loro hanno da fare, non hanno tempo per me, e anch’io del resto avrei da fare, perciò il finestrino deve restare chiuso ed ergersi come monumento alla discrezione sociale. Essa dev’essere mantenuta tanto più tenacemente quanto più è facile che la si possa infrangere, e a tal fine cosa può esserci di più appropriato d’un cristallo che, essendo trasparente, induce alla tentazione, ed essendo fragile obbliga alla continenza?
Per disperazione scorro i volti di chi condivide con me questa carrozza, sperando di notare qualche sguardo aperto, o perlomeno non ostile, un’anima buona disposta a darmi qualche informazione su questo treno, oppure su quanto distante io mi trovi dalla mia destinazione, o almeno se c’è speranza di veder passare il capotreno, il quale, per obbligo di funzione, ascolterà quanto ho da chiedere e, se potrà, mi risponderà. Niente da fare, nessuno ha voglia o coraggio di mettersi in cattiva luce, perciò torno al mio posto accanto al finestrino.
Sull’altro lato della banchina ora è fermo un altro treno, anche quello con i finestrini bloccati, anche quello, per quel poco che riesco a intravedere attraverso la polvere dei finestrini, pieno di gente indaffarata. Alcune superfici vetrose meno sporche mi rimandano l’immagine parziale della mia carrozza, e scopro che è simile a quella che mi sta di fronte, una serie di occhi rettangolari non limpidi, anzi quasi ciechi di cataratta, e una parete d’una tinta arancio che non riesce a trasmettere nemmeno un briciolo d’allegria, e infatti nessuno sembra felice d’essere lì.
Valuto a occhio quante persone stanno adesso tra quel treno e il mio, e apparentemente sembra che nulla sia cambiato, come se da quello fosse sceso lo stesso numero di passeggeri di quanti ne sono saliti, oppure, estrema ipotesi, che non sia salito e sceso nessuno, situazione improbabile quest’ultima, ma non impossibile, diciamo bizzarra.
Si potrebbe pensare che quelli che ora sono sulla banchina stiano attendendo che arrivi un treno successivo a uno dei due che ora sono fermi, per poter partire o per accogliere chi ne scenderà, ma la nostra presenza sui binari certifica che quel convoglio porta un pesante ritardo, e non mi pare di scorgere nei loro volti dei giustificabili segni d’impazienza, perciò non mi spiego questo equilibrio numerico.
Nella mia carrozza poco sembra cambiato, tranne tutto, nel senso che i viaggiatori di prima non ci sono più, neppure quelli che mi sedevano accanto e che mai avevano manifestato la loro intenzione di scendere lì; un nuovo stuolo di sconosciuti, che comunque non posso affermare di non aver mai visto prima, ha preso il loro posto.
Cerco allora sulla banchina qualche volto noto, qualcuno che sia appena sceso dal mio treno, ma è fatica sprecata, sembrano tutti uguali, pur essendo tutti diversi, come se esistesse una quantità prefissata di giacche, cappelli, valigie, borse, camicie, occhiali, sandali, eccetera, con fogge e colori rispondenti a modelli variati ma inderogabili, e la vista mi si confonde. Anch’io sono come loro?
Cerco la mia risposta tra i miei compagni di viaggio, ma, se si escludono le fattezze del volto, sembrano personaggi identici a quelli che avevano condiviso questa carrozza con me fino a quel punto, stessi abiti, stessi accessori, stessa espressione chiusa, magari solamente scambiati di posto, il che però non cambia nulla.
Mi coglie un moto di nausea, e per non mostrare il mio viso contratto torno a guardare fuori. La stazione, ora, è diversa.
Da quanto riesco a vedere non mi sembra più grande della precedente, ma per certo è più moderna. Lo si nota dall’eleganza asciutta e severa dell’edificio principale, con grandi superfici vetrate che rimandano vaghi riflessi pervinca, dalle banchine ora protette da pensiline in alluminio e acciaio, e dalle brunite colonne di sostegno che alla vista appaiono così esili, ma che sono sicuramente il nobile frutto di complessi calcoli architettonici.
Tra una tettoia e l’altra riesco a scorgere una striscia di cielo. È ancora sereno ma non abbagliante come prima, l’azzurro s’è stemperato da sé in un pavone con sfumature più calde di viola e corallo, il che mi conduce a immaginare che l’ora stia volgendo verso il tardo pomeriggio. Quanto alto sia il sole non lo so, ombre praticamente non ce ne sono, la luce, bianchissima e invasiva, piove da lunghe lampade poste a intervalli regolari sotto le pensiline, scende da altre fonti luminose sistemate all’uopo su ogni colonna, e poi accanto alle scale mobili, davanti all’ascensore, sopra i tabelloni informativi, e persino sulla pavimentazione sono state annegate delle corsie luminose. Accostando il viso al finestrino posso notare in alto alcuni schermi che riportano i dati delle prossime partenze, la destinazione, l’orario, l’eventuale e malaugurato ritardo, e, scorrendo velocemente i nomi, anche tutte le stazioni intermedie, posti che ignoro e che potrebbero benissimo trovarsi sulla Luna.
Fuori non c’è quasi nessuno, e allora l’occhio cade sulla pavimentazione che le lampade fanno risaltare fin nel minimo dettaglio. Niente pietra, niente cemento, niente asfalto, bensì un manto di grandi piastrelle rettangolari poste in opera con una precisione degna di ubicazione più nobile, lo dicono la regolarità delle fughe e il passo mantenuto con diligenza dai posatori. Verrebbe voglia d’usarlo come un foglio a quadretti per farci un disegno.
Rispetto all’esperienza precedente direi che passano in pochi, chi con la divisa della compagnia ferroviaria o d’un servizio di vigilanza, chi con un bagaglio leggero, una valigetta, una portadocumenti, chi con uno zainetto sulla spalle, chi portandosi dietro un trolley che ha un leggero sobbalzo ogni qual volta le ruote in plastica incontrano il giunto tra le piastrelle, chi con una custodia per speciali attrezzature, chi con una capiente ma elegante tracolla, rarissimi i viaggiatori caricati d’una comune valigia o d’un voluminoso borsone. Tutti in comune però mancano d’una cosa: la fretta. Procedono senza dare l’aria d’affannarsi, oserei dire con flemma, verso la loro carrozza e il posto prenotato, come se avessero la certezza che il treno non possa per nessuna ragione lasciare la stazione se loro non sono a bordo. Ritengo che ciò derivi dalla loro dimestichezza con il treno, quella dei viaggiatori abituali che sanno bene come organizzare i loro spostamenti per evitare i tempi morti d’inutili attese e l’agitazione per una partenza in forse fino all’ultimo istante.
Dato che non mi pare che qualcuno di loro entri nella mia carrozza, sarebbe logico supporre che non vi siano posti disponibili, e invece è mezza vuota. Forse quest’ultima espressione è infelice, anche se numericamente abbastanza corretta, giacché ci s’aspetterebbe di vedere tutti i viaggiatori ammassati nella prima metà della carrozza, mentre così non è, in quanto essi vi si sono disposti il più lontano possibile gli uni dagli altri, occupandolo in maniera abbastanza omogenea dalla testa alla coda, e offrendo a uno sguardo distratto l’impressione d’occupare in realtà tutto lo spazio disponibile.
Ancora d’un’altra cosa mancano: la voglia di parlare.
Certo, non hanno lo stesso guardo maldisposto di chi li ha preceduti, anzi sembrano calmi e rilassati, tanto da convincermi che qualora ponessi a uno di loro una domanda, questi mi risponderebbe in modo più che cortese, ma non sono necessarie eccezionali dosi di perspicacia per intuire che preferirebbero di gran lunga non essere disturbati.
Vi dirò, la mia è qualcosa di più d’una sensazione e qualcosa di meno d’un sospetto, ovvero ho l’impressione che pur leggendo un libro o una rivista, pur osservando lo schermo ora baluginante ora inanimato d’un ammennicolo elettronico, per svago o per lavoro è uguale, pur facendo mostra d’essere impegnati nello studio di progetti ambiziosi, pur consultando con manifesta attenzione l’agenda degli impegni, quasi a volerla imparare a memoria, pur facendo tutti costoro del loro meglio per dimostrare un inossidabile impegno nel vivere sociale, stiano invece riflettendo sui casi loro, su ciò che hanno visto e ciò che s’aspettano ancora di vedere, sempre senza dare l’impressione di preoccuparsi per ciò che avverrà o che scorrerà fuori dal treno.
Già, perché fuori c’è sempre qualcosa da vedere, come per esempio un altro convoglio che è fermo un paio di binari più in là, verso l’edificio principale, nascondendolo in parte, ma senza riuscire a sminuirne l’eccezionale ricchezza di vetrate e di vistosi pannelli pubblicitari.
Anche quel treno dovrebbe trasportare dei passeggeri, ho precisato dovrebbe perché i finestrini sono oscurati, perciò ben poco lasciano intendere di chi o cosa ci sia dietro quelle lastre fumé. A dirla tutta sto incontrando persino qualche difficoltà a distinguere dove stia il confine tra l’opaco metallo e il semitrasparente cristallo, giacché una larga banda color carbone attraversa per tutta la lunghezza le carrozze, contrastando con intento dinamico il loro colore di fondo che, nelle intenzioni, doveva apparire argenteo. Quella mimesi dei finestrini è studiata, quasi a voler suggerire, stante l’alta velocità raggiungibile, che ogni tentativo di dare una misura a quel missile su ruote sarebbe un compito superiore alle possibilità umane, un po’ lo stesso modo di pensare di quei sovrani assoluti che fecero ergere le piramidi a sempiterno monito della loro superiorità incommensurabile.
Le mie riflessioni estetiche vengono bruscamente interrotte dall’arrivo d’un treno giusto sul binario accanto al nostro. Nella mia carrozza l’ambiente è abbastanza silenzioso, perturbato solamente dall’occasionale frusciare delle pagine d’una rivista sfogliata con una certa impazienza, dal debole tamburellare che provocano dita ben ammaestrate sui tasti d’un computer, da una sorta di ritmato sfrigolio che proviene dagli auricolari di chi sta ascoltando della musica, dal mormorio leggero e continuo dell’aria che esce dalla bocca di ventilazione posta alla base del mio finestrino, dal ronzio leggermente fastidioso d’una lampada o d’un circuito elettronico che non funzionano a dovere, da qualche imbarazzato colpo di tosse, e dalla voce d’un passeggero che, per obbligo o per noncuranza, sta utilizzando il suo telefono, e comunque parla a bassa voce, immagino per non far sapere agli altri i fatti suoi, non per cortesia verso il resto dei passeggeri, perciò l’apparizione di quella nuova parete bianca e nera che scorre veloce, con fragore, più immaginato che percepito, d’aria spostata con violenza, e tutto a poche decine di centimetri da me, m’ha quasi spaventato, giacché, preso alla sprovvista, lì per lì non ho riconosciuto all’istante nei tratti di quel mostro strisciante quelli del suo gemello nel quale io mi trovo.
Una, scappata via, due, veloce, tre, meno veloce, quattro, più lenta, cinque, lentissima, sei, quasi ferma, sette, ferma. Uno dei finestrini di quella che presumo sia la settima carrozza è capitato proprio di fronte a me, e anche se le immagini devono superare quattro strati di cristallo antisfondamento, due di trattamento fumé e due di polvere, sono abbastanza indiscreto da voler gettare un’occhiata di là, e vado cercando la giustificazione per questa mia invadenza ottica colla supposizione che ora anche le persone dell’altro treno ci staranno, mi staranno, osservando.
Ridurre a delusione l’immagine che ne ricavo sarebbe fuori luogo, in quanto non è che ci si possa aspettare chissà che dall’interno d’una normale carrozza ferroviaria, e inoltre qualcosa d’interessante effettivamente c’è, si tratta d’una donna seduta accanto al finestrino, però nel verso opposto al mio. Riesco a vedere il suo volto, e quindi, a meno che il suo visus non sia limitato da qualche accidente fisiologico, lei potrebbe vedere me.
Mi guarda, mi vede, mi sorride, e non è un sorriso di cortesia, di convenienza formale, bensì un silenzioso messaggio di comprensione, personale e potenzialmente reciproco. Lei, anche se diversa nell’aspetto, nella collocazione e nella meta, è come me, alla mercé d’una scatola metallica e d’un percorso obbligato, disillusa da paesaggi promessi e presto spariti, trattenuta dai limiti che il tempo impone a fisico e mente, confinata tra le invalicabili mura d’un rassegnato scetticismo, disinvolta nel fare adesso e dubbiosa di ciò che sarà. Lei guarda la vita come guarda me, e come io guardo lei, senza l’illusione d’una sorpresa, senz’altro scopo che non sia la solidarietà tra pari.
Vorrei regalarle qualcosa di più d’un sorriso e d’uno sguardo d’intesa, vorrei dirle qualche parola, niente di stucchevole o fatuo s’intende, sarebbe fuori luogo, addirittura ridicolo alla nostra età, e sono quasi certo che anche lei non si tirerebbe indietro, non rimarrebbe serrata come un’ostrica, bensì capirebbe l’importanza di cogliere l’attimo per versare in una coppa il vino dei turbamenti, dell’ansia, della meraviglia, della memoria, della confusione ottenuto nell’avara vigna della vita, per offrirla e scambiarla, come si fa con i doni a Natale.
Non si può, il suo finestrino è uno scudo trasparente tutto d’un pezzo, e facendoci caso noto che anche il mio lo è, niente maniglie da tirare, nessuna vasistas da abbassare, e se decidessimo di violare quel confine, frantumandolo, verremmo giudicati assai duramente, come minimo presi per pazzi ed esiliati per sempre dalla condizione di viaggiatori.
Quest’ultima ipotesi m’attira e mi spaventa, in fondo non sarebbe un gran danno, forse dovrei provarci, forse qualcuno l’ha già fatto ed è sopravvissuto al biasimo generale, forse ciò che sta all’interno di questa carrozza non mi può offrire più nulla, se mai m’ha offerto qualcosa, forse…
Forse è troppo tardi.
Sì, è troppo tardi per me, ho già vissuto quel tanto da provare paura d’andare incontro a un futuro estraneo, e se pur la ragione afferma che si tratta di timori privi di senso, poiché nessuno sa cosa gli riservi il futuro, l’animo s’aggrappa a quel poco che sa, ossia ciò che non gli riserva il futuro, se ne fa una ragione e trova pace nella rinuncia.
Sì, è troppo tardi per noi, un centimetro troppo tardi, poi due, poi dieci, un metro, un mondo, i nostri rispettivi finestrini s’allontanano, e noi con loro, si va verso la prossima stazione, io o lei è difficile dire: questi treni sono così silenziosi che non ci si rende conto di chi si sta muovendo.
Non voglio più vedere, potrei commuovermi. È stato un attimo di debolezza, l’illusione di poter tornare a essere chi si pensava d’essere in passato, ma non è possibile, e non lo era nemmeno allora. Ho timore di guardare gli altri viaggiatori, sarebbero capaci d’avvertire il mio turbamento, finirebbero col sospettare di me come si sospetta d’un idealista, anche perché giudicare gli altri pare sia il passatempo preferito qui, e allora me ne sto a testa bassa fissando il pavimento davanti ai miei piedi.
Lasciatemi in pace.
Fuori è scesa la sera ormai, dentro invece è sempre giorno, almeno così pretende d’affermare la striscia d’abbacinanti lampade lungo tutto il soffitto, fastidiose per indelicatezza e perché ribadiscono la loro presenza con un costante ronzio, come se trattenessero dei trasparenti mosconi al loro interno. In queste condizioni è difficile vedere cosa ancora ci sia d’interessante all’esterno del treno, il finestrino mostra il mio viso, pallido per la fredda luce che scende dall’alto e inonda tutta la carrozza, pallido per il poco sangue che stenta a circolare sottopelle, mentre il resto all’interno è un’immagine confusa di poltrone che raccolgono un’umanità di figure accasciate. Avvicino lentamente il volto alla lastra finché sento il tac degli occhiali che la toccano, quindi accosto una mano a farmi da schermo contro quel biancore artificiale.
Il treno è fermo, fermo come l’aria gravida di sentori, diversi nella fonte ma similmente fastidiosi, afrori e odori, naturali e innaturali, indecenti e alieni, corpi di carne e oggetti di plastica.
Un altro convoglio è immobile, potrei dire accucciato accanto alla sua banchina, ne distinguo anche qualche dettaglio, noto che le superfici vetrate sono estese ma strane, alcune sono poste più in basso di altre. Chissà, forse anche il mio treno è così, però non ho nessuna voglia d’indagare, e in fondo non me ne importa nulla. Le sue porte scorrevoli sono aperte e, verdi primavera (che presa in giro!), rappresentano l’unico punto di colore vivace in un’immagine dalle tinte livide, a tratti plumbee, percezione favorita da una modestissima illuminazione in grado di slavare ogni pigmento e dal grezzo cemento col quale sembra sia stato costruito tutto quello che non è mobile.
Un altro aspetto strano attira la mia attenzione, ovvero pare che nessuno s’avvicini per salire su quel treno, eppure le porte sono aperte, quindi la partenza è prevista entro un tempo ragionevolmente breve, e dubito assai che tutti i passeggeri abbiano preferito prendere posto con largo anticipo. No, mi sbagliavo, del movimento c’è, ma in verso contrario. Ecco una persona che scende facendo attenzione a dove mette i piedi, quindi cammina piano sulla banchina, percorre tutto il treno fino alla motrice e attraversa lo spazio d’una sorta di laico nartece tra le banchine e una serie di vetrate. Senza un rumore, uno spiraglio s’apre automaticamente, diventa un ampio passaggio, per richiudersi qualche istante dopo che colui che fu un viaggiatore ha attraversato la barriera di cristallo. Di più non riesco a distinguere, già tutta la faccenda è avvenuta quasi al limite del mio campo visivo, poi è probabile che quelle vetrate siano predisposte per riflettere la luce, quindi ignoro cosa stia avvenendo al di là di quel confine, magari ci sono altre banchine e altri treni, però scopro che, forse, non sono così voglioso di voler sapere.
Molto altro non c’è da vedere e, per abitudine o per noia, butto un’occhiata a ciò che avviene sul mio treno. Mi sorprendo nel notare che anche le porte scorrevoli della mia carrozza sono spalancate, ma nessuno sale, eppure, se ricordo bene, in ogni stazione dovrebbe avvenire un travaso di passeggeri dal treno alla banchina e viceversa. Quindi dovremmo partire tra poco, ma non riesco a notare in nessuna delle persone che condividono questo angusto spazio segni d’eccitazione per l’inizio del viaggio o d’impazienza per non essere già in movimento. Tutti sono abbandonati ai loro posti, chi, con il capo accostato al poggiatesta o affondato sul petto, dorme, o cerca di farlo, o finge di farlo, chi fissa con sguardo cieco lo specchio impuro del finestrino, chi sembra compreso nei suoi pensieri e mormora parole stizzite, generalmente incomprensibili, chi se ne sta seduto eretto, contegnoso, e però non riesce a trattenere qualche lacrima, chi non trova pace e continua a girarsi e rigirarsi sulla poltrona, cercando una posizione, un sollievo, o semplicemente di dar fastidio agli altri per dispetto, e c’è anche chi, come me, guarda fuori, cerca di vedere, cerca di capire e, come me, teme di capire.
Torno anch’io a rivolgere la mia attenzione al disadorno panorama esterno, guardo il treno a fianco, troppo simile al mio, tutti le carrozze che riesco a vedere, fino alla motrice, e davanti a quella i respingenti della stazione, una stazione di testa. A occhio non ci sarà più d’un paio di metri tra la barriera terminale d’acciaio e cemento e i respingenti del treno, e quella misera distanza è la sola ancora disponibile per il nostro viaggio, per cui, giunti a questo punto, non vale nemmeno la pena muoversi.
Allora cerco di ricordare come e dove ho viaggiato, su quanti chilometri d’acciaio abbiano girato le ruote del mio treno, ma di tutto quel confuso ragionare, quell’imbroglio di ricordi e rottami, dopo aver tanto corso e altrettanto visto, solamente una domanda si presenta invariabile e fastidiosa: a cos’è servito? E se non m’è stato possibile sottrarmi al destino di finire qui, ormai è fatta, lo so, a quel dubbio s’aggiunge il dolore per non aver subito compreso quanto fosse inevitabile che finissi qui, in questa assurda carrozza stipata di fantasmi, tutti bloccati, noi e il treno, in una squallida stazione di testa, una stazione dove s’arriva soltanto e si parte mai.
Quasi quasi scendo.

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