Le verità di Pinocchio

Le verità di Pinocchio

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Diciassettesima puntata

 


– Vedi caro Pinocchio, quando nacqui ero piccolina, di carnagione chiarissima, e già s’era capito che i miei capelli sarebbero stati bianchi. A quel tempo i miei genitori non se la passavano troppo bene, ma il mio arrivo portò loro un po’ di luce, non tanta da schiarire tutte le ombre che li affliggevano, ma abbastanza per non smarrirsi nel buio di un’esistenza grama.
– E allora?
– E allora decisero che mi sarei chiamata Lunetta.
– È un bel nome – disse Pinocchio. – I tuoi genitori hanno scelto bene, capita di rado.
– Lo so, è tra le poche cose che sono riusciti a regalarmi prima che la febbre terzana se li portasse via, e lo conservo gelosamente, tanto che solamente chi è in questa stanza lo conosce.
Dall’esitazione che aveva accompagnato quelle parole si capiva che quel segreto racchiudeva anche dei ricordi dolorosi, perciò tutti rimasero in rispettoso silenzio.
– Beh, tra noi due usiamo i nostri veri nomi da una pezza – aggiunse lei regalando un fuggevole sorriso a Enore. – Cerca di capire, ci sentiremmo ridicoli a chiamarci a vicenda Fata e Mangiafoco.
– E in fondo io non devo spaventare più nessuno – disse Enore. – Quel nome me l’hanno appiccicato per via del mio aspetto e di questo vocione cavernoso, e m’è servito per tenere a bada i malintenzionati che magari volevano rubare dei burattini o l’incasso della giornata, ma ora…
– I burattini! – esclamò Pinocchio, come se si fosse ricordato in quell’istante di una cosa importantissima. – Pulcinella, Arlecchino, Rosaura e tutti gli altri, dove sono?
– Su in soffitta. Ho costruito per loro una sorta di casetta e ora vivono lì la loro vita. Ogni tanto si divertono a mettere in scena degli spettacoli che inventano loro, e sono pure più bravi di me.
– M’andrebbe di salutarli.
– Ah no, mi dispiace, non è possibile.
– E perché?
– Primo, non sei più un burattino, perciò non ti riconoscerebbero, forse si spaventerebbero pure. Metti poi che tu riesca a convincerli di essere quello che eri un tempo, allora non avremmo più pace perché farebbero il diavolo a quattro per farsi trasformare in fanciulli anche loro.
– E questo non è possibile – concluse Pinocchio.
– No, non lo è – confermò la Fata. – Io non potrei fare nulla per loro, come nulla ho fatto per te, tranne aiutarti a trovare quel che di buono e generoso c’era nel tuo animo. Tu sei cresciuto e crescerai ancora, ma loro saranno sempre e solamente dei bambini.
Quella spiegazione non ammetteva repliche. Non era una situazione triste, in fondo i burattini se la passavano bene, ma la loro inconsapevolezza del mondo e della vita gettò un velo di malinconia sui pensieri di tutti.
– Su, animo, è ora che tu vada – gli disse la Fata.
– Sì, è ora – confermò Mangiafoco mettendogli in mano il fagotto delle provviste.
Uscirono tutti. Fuori era ancora buio, anche se si iniziavano a distinguere le chiome degli alberi più alti sullo sfondo del cielo. Andarono sul retro della casa, fino allo steccato che delimitava l’orto, facendo attenzione a non calpestare le verdure, e lì si salutarono.
Pinocchio abbracciò tutti, e Alidoro più degli altri, il quale ricambiò con una leccata dal mento ai capelli. Avrebbero voluto dire ancora qualcosa, ma erano troppe le parole che volevano uscire, e quelle s’ingolfavano nell’animo e nella testa.
– Beh, allora addio, e grazie di tutto – riuscì a dire Pinocchio.
– Ci si vede, amico – rispose prontamente il cane.
Per fortuna la luce era pochissima, così nessuno notò le lacrime sul volto di Mangiafoco/Enore. Non solo se sarebbe vergognato, ma temeva che per Lunetta sarebbe stato un buon motivo per prenderlo in giro finché viveva.
– Addio, e chissà, forse un giorno racconterò di te ai miei burattini.
Per ultima fu la Fata a salutarlo.
– Ciao Pinocchio, se puoi fammi sapere come stai. Ora vai, ti aspettano, e mi raccomando, rimani quello che sei e cerca di superare ogni ostacolo con testa e coraggio.
– Lo farò – disse Pinocchio, e si voltò dirigendosi verso il bosco che distava qualche centinaio di passi dallo steccato, diventando prima una sagoma appena distinguibile, e poi l’illusione di vedere ancora qualcuno nel buio.
I tre rimasero lì per un bel po’, anche dopo che non si udì provenire dal prato alcun rumore, poi, chi con un sospiro e chi con un paio di sternuti, rientrarono in casa. L’alba non avrebbe portato lì una giornata allegra, ma in fondo nemmeno troppo triste.
Intanto Pinocchio aveva raggiunto il limitare del bosco, e alla base di un enorme acero trovò ad attenderlo una volpe, la quale gli girò attorno un paio di volte e poi s’inoltrò nel fitto. L’animale procedeva lentamente, seguendo un percorso che solamente lei riconosceva, e nel buio spiccava il colore fulvo del suo mantello e della lunga coda, il che evitava a Pinocchio d’andare a sbattere contro qualche tronco.
Il Sole s’alzò nel cielo, raggiunse il suo punto più alto, poi discese verso Ovest, e durante tutto il tragitto non riuscì a mai scorgere i due viaggiatori che procedevano al di sotto del fronzuto tetto della foresta. S’erano fermati a riposare un paio di volte, e all’imbrunire la volpe trovò presto un anfratto relativamente comodo per trascorrere la notte. Del resto lei lì era di casa, e del bosco conosceva i tutti pericoli e le molteplici risorse. Mentre la osservava acciambellarsi su un letto di foglie, a Pinocchio venne in mente che per tutta la giornata non avevano visto altri animali, e che mai la volpe aveva manifestato un atteggiamento guardingo, come se le regole naturali della foresta fossero state sospese durante il loro passaggio. Avrebbe voluto chiedere, ma era evidente che l’animale che gli faceva da guida non amava far conversazione, o che chi l’aveva istruito gli aveva imposto anche il silenzio. Con queste riflessioni in testa s’addormentò, vinto dalla stanchezza e dal silenzio che lo avvolgeva, quest’ultimo del tutto naturale lì, ma insolito per chi vive in paese.
All’alba del giorno seguente venne svegliato dal leggero tocco di un naso umido. Quando aprì gli occhi vide appunto il muso della volpe che gli dava dei colpetti sul volto. In quell’istante si rese conto che per tutto il tragitto aveva osservato la sua lunga coda che lo precedeva, e ora aveva la possibilità di guardare lo sguardo di una volpe, a un palmo. Notò le sue grandi orecchie, i lunghi baffi, e gli occhi, così simili ma anche così differenti da quelli di un cane, quasi luminosi al confronto. Scoprì anche delle macchioline di sangue a lato della bocca, segno che lei aveva già fatto colazione. Per niente sorpreso da quella scoperta, aprì la sua rudimentale bisaccia e pensò bene di mangiare qualcosa anche lui prima di rimettersi in marcia, e già che c’era offrì una fettina di finocchiona anche alla volpe, tanto per avere la sensazione di condividere qualcosa.
Non era ancora trascorsa mezza mattinata che Pinocchio s’accorse che qualcosa stava cambiando. Il bosco era meno fitto, ma soprattutto era diverso il comportamento della volpe. Ora procedeva più guardinga, annusando il terreno prima di procedere, talvolta persino allungando la strada, o almeno così gli pareva. D’un tratto si trovarono sul limitare di una vasta radura che scendeva dalla cima di un colle fin quasi alla sua base. Stettero lì a osservare quello spazio aperto, Pinocchio perché era stupito da quella brusca variazione del paesaggio, e la volpe perché, come tutti gli animali selvatici, non amava gli spazi aperti dove si rimane in bella vista.
– Beh, il mio compito è finito. Me ne vado – disse la volpe.
– Ma… ma… tu parli allora – disse Pinocchio, incerto se meravigliarsi o arrabbiarsi.
– Solamente se devo. Addio.
Si sa che gli animali non portano le scarpe, ma se invece così fosse potremmo ben dire che la volpe girò sui tacchi e se ne andò, sparendo quasi immediatamente tra il fogliame del sottobosco.
Non sapendo che fare mosse qualche passo nella radura, cercando cogli occhi qualcosa in grado di aiutarlo, anche il minimo indizio che spiegasse perché la volpe l’aveva portato lì. Niente, non c’era niente, solamente l’erba di un prato senza fiori dalla quale spuntavano dei ciuffi di tarassaco, qualche giovane ramoscello di nocciolo e gli onnipresenti strigoli. A rompere quelle diverse sfumature di verde erano visibili qua e là i ceppi degli alberi che un tempo avevano formato un bel boschetto, ma che, come sovente capita al legno, a un certo momento avevano preso la strada per la segheria o il camino.
Pinocchio venne preso dallo sconforto, e in quel momento anche la stanchezza si presentò a reclamare il saldo per aver camminato così a lungo nel bosco, perciò s’avvicinò al ceppo più vicino e vi si sedette come se quello fosse un rustico sgabello, ma appena vi fu sopra avvertì dolore fortissimo, insopportabile, e si rese subito conto che doveva sfuggirli in qualsiasi maniera, ma era come paralizzato e non trovò le energie per alzarsi e scappare. Per fortuna quella stessa mancanza di controllo sul suo corpo lo fece scivolare dal ceppo, e nel medesimo istante il dolore cessò improvvisamente com’era arrivato. Pinocchio s’era già fatto male molte volte, e pure aveva provato le pene di un’indigestione, ma una sensazione così bruciante e subitanea non faceva parte del suo bagaglio di esperienze. Mentre boccheggiava sull’erba cercò di mettere ordine nella sua testa, per capire cos’era successo.
Appena s’era seduto aveva provato un dolore fortissimo al ventre, come se qualcuno stesse tentando di farlo a pezzi partendo proprio da lì, ma la pena non era solo quella del corpo, era accompagnata da intense sensazioni di paura e di rimpianto, nonché dall’infinita tristezza di chi non può opporsi alla violenza che sta per colpirlo. Ma se il suo corpo aveva subito smesso di soffrire, altrettanto non si può dire della memoria, nella quale non svanivano quelle emozioni deprimenti.
Dopo aver ripreso fiato decise di mettersi seduto, e per prima cosa controllò se aveva delle ferite che avrebbero potuto causare il dolore di poco prima, ma di segni non se ne vedevano, tranne quelli lasciati dall’erba quand’era caduto. Più tranquillo dopo quell’esame, s’alzò in piedi e provò a camminare. I risultati furono confortanti, nel senso che le gambe lo reggevano abbastanza bene, anche se si sentiva ancora stordito da quelle emozioni forti che aveva provato. Attraversò la radura, badando bene di evitare tutti i ceppi che incontrava sul percorso, fino ad arrivare al suo limite opposto, un tratto in pendenza sul quale stava un pino bianco, una pianta stortignaccola che i boscaioli avevano giudicato indegna della fatica di tagliare e trasportare. Ancora in preda a qualche capogiro, Pinocchio preferì appoggiarsi qualche istante sul tronco di quel pino.
– Se la memoria non m’inganna, io già ti conosco – disse qualcuno.

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