S.

 
La porta di una carrozza si apre davanti a me, quasi in silenzio, giusto un sospiro e il sordo rumore di un finecorsa. Osservo i due scalini che mi conducono al vestibolo interno più in alto e non so decidermi. Sul marciapiede si sta avvicinando con fare deciso una persona che indossa una sorta di divisa che non riconosco. Non è un viaggiatore, non ha bagagli e nemmeno mostra l’intenzione di salire sul treno, e anzi sembra proprio che ce l’abbia con me. Facile deduzione, non c’è nessun altro nei paraggi. Eccolo.
– Beh, che fa ancora qui, non sale? – Mi chiede, come irritato per la mia titubanza.
– Ecco, non saprei.
– Cosa non sa?
– È questo il mio treno?
– Su, non faccia domande cretine. Salga e trovi il suo posto.
Faccio appena in tempo a raggiungere il vestibolo che la porta si chiude alle mie spalle e il treno si mette in moto. L’immediatezza di questi due eventi mi lascia vagamente perplesso. Mi par di ricordare che le partenze in genere vengono sempre preannunciate da vari segnali, avvisi all’altoparlante, scalpiccio di passi frettolosi, vaghi echi di voci che salutano, sbattere di porte, il fischio del capostazione, cigolii di freni che si allentano, qualche scuotimento, ma qui invece tutto si è svolto in sordina. È come se il treno stesse aspettando solamente me per avviarsi su rotaie di velluto.
Lo sguardo corre lungo il corridoio, tra le due file di schienali dei posti a sedere. La carrozza è completamente vuota, a meno che tutte le poltroncine siano state occupate da bambini o da nani, eventualità estremamente improbabile e quanto mai bizzarra. M’inoltro nella carrozza, quattro poltroncine a sinistra, quattro poltroncine a destra, tutte uguali, tutte pulite, tutte libere, tutte indifferenti alla mia incertezza. Quel tipo alla stazione mi ha intimato di trovare il mio posto, e vorrei adesso che fosse qui per spiegarmi come si fa. Decido che un sedile di sinistra, fronte marcia, accanto al finestrino, circa al centro della carrozza sarà il mio posto. Ecco, ora sono seduto, e finalmente potrò distogliere lo sguardo da quello schieramento di poltroncine color cobalto, finalmente mi sentirò una persona che sta viaggiando, e la visione di ciò che sta fuori e che si fa osservare per un attimo, solo il tempo di distinguere senza capire, mi darà la sensazione di essere inarrestabile e di poter arrivare dove più mi aggrada.
Niente da fare, non sono nemmeno riuscito a mettermi comodo che una persona mi si para di fianco, un uomo che non conosco ma che non mi è del tutto estraneo.
– Scusi, pare che lei sia sul mio posto a sedere.
– Come dice?
– Dico che quello è il mio posto, grazie.
Tutta la faccenda mi appare strana. Siamo appena partiti, e quando sono entrato la carrozza era completamente vuota, perciò mi chiedo da dove sia sbucata questa persona.
– Però… ci sono un sacco di posti liberi.
– Lo so, ma lei è sicuro che quello sia proprio il suo posto? Può dimostrarlo?
– Veramente no, però non vedo la differenza.
– Non è questo il punto. Se non è ben certo che sia il suo posto deve lasciarlo.
Cedo alla sua assurda insistenza e mi sposto due file più avanti. Manco a farlo apposta, dopo qualche istante arriva un altro tizio, preciso sputato a quello di prima, che reclama proprio il mio posto. Mi alzo in piedi per controllare dietro che non sia lo stesso rompiscatole di prima che ha deciso di rendermi la vita difficile. Non lo è, vedo la sua testa, vedo il suo sguardo. Ostile.
Cambio posto di nuovo, e di nuovo arriva uno che mi chiede di giustificare la mia presenza proprio su quel sedile. Decido che ne ho abbastanza.
Percorro il resto della carrozza, spingo la porticina in fondo al corridoio, attraverso velocemente la passerella intercomunicante ed entro in un’altra carrozza. È tutta piena. No, mi sbagliavo, noto un posto libero, uno solo, lato corridoio, anche quello in area centrale. Mi avvicino.
– Scusate, è libero?
Non ottengo una risposta, nemmeno un cenno, e solo ora noto che nessuno bada a me, ma nemmeno bada ad altro che non sia sé stesso. Mi siedo e spero che non arrivi nessuno a farmi alzare. Qualcuno però arriva: è il controllore.
– Biglietto prego.
In quell’esatto istante realizzo che ne sono sprovvisto, e allo smarrimento si somma la vergogna per essere stato colto in difetto.
– Io, veramente, non ho il biglietto, volevo farlo, ma non c’è stato il tempo.
– Niente biglietto? E come fa a viaggiare senza? Lo sa lei? Io no di certo. Su, si alzi.
– Mi fa scendere?
– No, nessuno scende da qui. Lei lavorerà per pagarsi il biglietto. Venga con me.
Sono sollevato. Per un istante ho temuto di dover uscire anzitempo, di essere escluso dal treno, ma prima o poi ne farò parte a buon diritto col mio biglietto.
Di carrozza in carrozza – il treno è lunghissimo – arriviamo finalmente in quella a me destinata. È molto larga, e dentro ci sono altre persone in piedi indaffarate in faccende che sembrano avere a che fare con una cucina. Vengo avvicinato a un tavolo.
– Lei pulirà la verdura per il ristorante. Qui ci sono i coltelli e l’acqua.
Mi metto al lavoro. Per le mie mani passano carote, cavoli, carciofi, ma anche banane e arance. A un tratto vedo passare una giovane donna vestita elegantemente. Sta portando via un lucidissimo vassoio, quasi uno specchio, colmo di frutta fresca. Mi guarda. Mi sorride.
Chiedo a uno che sta lavorando accanto a me chi è quella donna che se ne sta andando.
– È un’hostess della Prima Classe, ma è anche la ragazza del capotreno.
Smetto subito di fare ciò che sto facendo e decido di seguirla. La carrozza della Prima Classe è tutta di scompartimenti, ma di quelli non si scorge l’interno, i cristalli verso il corridoio sono opachi, oppure dipinti con disegni dai colori vivaci, al gusto degli occupanti. I finestrini guardano un invariabile paesaggio di verdi prati e sparse case di mattoni rossi.
Una voce alle mie spalle: – Perché mi stai seguendo?
Mi volto. È lei.
– Perché mi hai sorriso? – le chiedo io di rimando.
– Perché ora hai il biglietto.
Cerco nella tasca dei pantaloni e trovo un pezzo di carta, però è pieno di parole di una lingua che non comprendo.
– Cosa c’è scritto?
– Ah, questo lo sa il capotreno, e lui è il solo a conoscere il percorso del treno.
– Dov’è il capotreno?
– E chi lo sa, – risponde lei facendo spallucce.
– Dovresti saperlo, sei la sua ragazza.
– Forse non più. Allora bello, come ti chiami?
– S., e sono uno scrittore, o almeno così mi è stato detto.
– Nome conciso, S, non c’è che dire, ma il cognome?
– Il punto è il cognome. Dunque mi pare che il capotreno dovrò cercarmelo da me.
Allora mi spiega che per riuscire a parlare con lui devo prima darmi da fare, lavorare, far carriera, per esempio uscendo dalla cucina per diventare un bigliettaio, poi un controllore…
– Sta bene, però io non so come si fa.
– È facile, – dice. – Entri nella carrozza e chiedi al primo che capita, nessuno su questo treno ha il biglietto. Lo porti a lavorare e così passi avanti. Se sarai bravo diventerai capotreno.
– Ma c’è già un capotreno qui.
– Appunto, ma domani potrai esserlo tu, e io sarò la ragazza del capotreno, almeno fino all’arrivo.
– Ma nemmeno tu sai dove porta questo treno. E poi, perché mai il capotreno dovrebbe cedermi il posto?
– È la regola, il vecchio deve sempre lasciare il posto al nuovo, anche se non vuole. Per questo motivo è quasi impossibile trovarlo, lui si nasconde, ma io ti aiuterò.
– Quando lo incontrerò saprò finalmente dove siamo diretti?
– Certamente, solo lui lo sa, e solo a te lo dirà. È l’ultimo dovere che che è tenuto a compiere su questo treno, ti svelerà il suo segreto. Andiamo.
Su e giù, giù e su a chiedere il biglietto, in carrozze strapiene, carrozze semivuote, carrozze buie, carrozze chiassose, carrozze silenziose, carrozze spoglie, carrozze anguste, ma lui non si fa vedere. Poi lei mi indica una porticina in fondo al corridoio. L’attraverso e mi trovo all’aperto, in una sorta di balcone di testa come quelli dei vecchi treni del West. Di fronte a me ho una carrozza simile, e su quella vedo di nuovo lei, ma stavolta accanto a un tipo molto alto che indossa una divisa vistosa e pesantemente gallonata. Esulto.
– Ah, ti ho trovato finalmente, adesso sono io il capotreno! E ora mi dirai dove stiamo andando.
La giovane donna sorride – per la seconda volta – e mi parla con una voce che sembra già lontanissima.
– Dolente, S., ma dovresti già aver capito che il capotreno è il treno stesso.
Mi sporgo e cerco di abbrancare quello spilungone che continua a tacere, ma lui si china, e con un solo gesto sgancia la mia carrozza dal resto del convoglio. Mi rendo conto di due cose, la prima è che sono in coda al treno, e la seconda è che stiamo procedendo su un lungo tratto in salita. La mia carrozza si ferma e poi comincia a indietreggiare. Il treno è già lontanissimo, reso quasi invisibile dal vapore della locomotiva, e alle mie spalle il binario si dirige chiaramente verso i resti di un ponte in rovina. Osservo con preoccupazione che mi ci sto dirigendo sempre più velocemente senza alcuna possibilità di frenare.
Non mi chiedo se morirò, se sentirò dolore, se resterà qualcosa di me, mi chiedo solamente dov’è diretto quel treno, e mi rammarico di non aver scelto di essere un semplice passeggero.
Ecco. Cado. Fine. Vuoto. Cuore in gola.
Ahia.
La testa ha sbattuto contro lo spigolo in alluminio del finestrino. È freddo, anche il cristallo è freddo, probabilmente anche fuori fa freddo, in inverno fa sempre freddo, specialmente di notte.
Mi sfilo dal collo il cuscino da viaggio. È un po’ sgonfio, ne deduco che è difettoso e perciò non mi sostiene più come dovrebbe. Guardo fuori, ma vedo poco o nulla, giusto delle meteore orizzontali e qualche fosco riverbero di luci lontane. Chissà che ora è, chissà quanto ho dormito, chissà dove siamo, però non mi va di disturbare i miei compagni di viaggio accendendo la luce, preferisco non sapere.
Si va dove vuole il treno.

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