Le verità di Pinocchio

Le verità di Pinocchio

Prima puntata

 

– E poi?
Già, capita sempre di trovare chi non si contenta mai, nemmeno di come finisce una storia, anche se la storia è finita bene. Insomma, dopo che ci s’è dati un bel daffare per raccontare tutte le peripezie, le avventure, le sorprese, gli accidenti, le imprese, le fatiche, le distrazioni, le malattie, le guarigioni e tutte le altre cose belle e brutte, per arrivare finalmente a un punto bell’e fermo, ecco qua che t’arriva quella domanda a tradimento tra capo e collo, e bisognerebbe essere proprio senza cuore per rispondere – E poi basta.
E così adesso vi racconterò cosa successe al buon Pinocchio dopo aver smesso i panni di burattino di legno per diventare finalmente un ragazzino per bene.
Era già un bel po’ di mesi che Pinocchio abitava nella sua bella casetta col babbo Geppetto. Di certo non s’era ancora del tutto abituato alla sua nuova condizione di bambino vero e, come esplorando un continente sconosciuto, ogni giorno portava qualche novità. C’erano delle cose belle come i capelli da pettinare, oppure la pelle che il sole scaldava e il vento accarezzava, ma c’era soprattutto una gran fame di fragole, more, ciliegie, mirtilli, lamponi, ribes e more che stavano nelle campagne come in una pasticceria a cielo aperto. Dopo quelle scorpacciate arrivavano anche cose meno belle, come tutti quei fastidiosissimi puntini rossi che gli spuntavano un po’ dappertutto, che più si grattava e più gli facevano un solletico fastidioso. Capitava poi che venisse inseguito dai proprietari degli alberi mentre lui e altri monelli della sua brigata li stavano passando al setaccio. Una volta un contadino sparò a sale, e Pinocchio provò una nuovissima sensazione di bruciore tra la schiena e le gambe, in una parte delicata che invece una volta era dura appunto come il legno. Quei piccoli fuochi durarono parecchi giorni e non fu possibile spegnerli con l’acqua. Per un po’ Pinocchio se ne stette sempre in piedi o sdraiato, ma non seduto.
C’era poi quella roba rossa che gli usciva da ogni sbucciatura che si procurava ruzzolando malamente, e che scorreva fuori per un po’ prima di fermarsi da sola. Il babbo Geppetto gli aveva spiegato che quell’acqua colorata si chiamava “sangue” e che tutti gli uomini ne avevano dentro, chi più e chi meno, ma a Pinocchio continuava a sfuggire l’utilità d’una cosa che a parer suo serviva solo a macchiare i calzoni o la giubba, e far gridare di spavento le donne.
Ma davvero si poteva ben dire che la condizione di bambino vero era una pacchia rispetto a quella di burattino di legno, e Pinocchio avrebbe potuto esser felice. Badate bene, ho detto avrebbe, perché in realtà la situazione non era più tutta rose e fiori.
Geppetto da qualche tempo non aveva più clienti. Nessuno ordinava più le sue belle seggiole impagliate, e anche i suoi lavori di cesello giacevano invenduti a far da pranzo, cena e merenda per i tarli, che di più grassi non ce n’erano in tutto il circondario. Dopo lunghe meditazioni e recriminazioni Geppetto s’era deciso a seguire i consigli di maestro Ciliegia. Infatti non passava giorno che quello non attaccasse col solito ritornello, cioè quant’è bello avere una paga sicura ogni settimana, senza pensieri e senza dover aspettare che qualche cliente di degni di entrare nella sua bottega avanzando mille pretese, compresa quella di pagare poco, che poi si finiva sempre a parole. Dai oggi e dai domani, alla fine lo convinse a cercare un impiego nella la fabbrica di mobili che stava all’uscita del paese, perché non vedeva altre maniere di portare il pane in tavola. Al capomastro la maestria di Geppetto non serviva, e così l’aveva messo a segar tavolacci e cavar chiodi per costruire le casse di spedizione. Quand’era in giornata buona lo metteva a piallare schiene per armadi, assieme ai lavoranti di primo pelo che manco sapevano tenere in mano un saracco, ma che si divertivano a prenderlo in giro chiamandolo col suo vecchio soprannome di Polendina. Solo che Geppetto non poteva più permettersi di rispondere per le rime, o peggio d’attaccar briga; le avrebbe prese, e forse sarebbe stato pure cacciato da quel lavoro malpagato ma unico. Potete ben immaginare come si sentiva il buonuomo, abituato a dare giù di mazzuolo e di sgorbia, di succhiello e di girabacchino, di sponderuola e di gattuccio, di fantasia e di gusto, star tutto il giorno a far assi che nessuno avrebbe degnato uno sguardo, tavolacci destinati a venir maltrattati prima e usati come legna da ardere poi, e pure di scarto. Il lavoro era duro, e Geppetto, che da qualche anno non era più giovane, tornava a casa piegato in due come stesse ancora segando una tavola.
Comunque mai Pinocchio sentì il suo babbo lamentarsi, però non passava giorno senza che notasse i segni di qualcosa che non stava andando per il verso giusto.
Geppetto, di carattere fumantino ma allegro, ormai non faceva più a Pinocchio burle o sorprese; si limitava a qualche rassegnata carezza e a qualche parola buona. Anche quando beveva un boccale di birra allungata con acqua non canticchiava più le canzonacce della sua giovinezza, se ne stava seduto in un cantuccio della cucina, per pensare diceva, a che cosa non si sa.

 

Continua…

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